giovedì 27 giugno 2013
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​Non c’è molto da festeggiare oggi a Bruxelles. Non l’imminente ingresso della Croazia quale ventottesimo membro dell’Unione né la polemica rovente fra il presidente della Commissione europea Barroso e l’Eliseo a proposito dell’area di libero scambio con gli Stati Uniti; non l’arrancare faticoso delle singole economie nazionali che da quasi sei anni annaspano per uscire dalla crisi mondiale e allineano ben 9 Paesi membri in recessione e men che meno sono da applaudire le orgogliose impennate nazionalistiche di Parigi e Berlino, la prima che vorrebbe un’Europa à la carte modellata sulla Francia e la sua “eccezione culturale”, la seconda che persegue una sorta di neghittosa egemonia, impareggiabile quanto a forza economica ma di cortissime vedute rispetto al disegno ispiratore che immaginava un’Europa sempre più larga, coesa e solidale.Dal 1° luglio Zagabria sarà membro effettivo dell’Unione, ma senza fanfare né tintinnii di medaglie: il suo Pil afasico (del 39% sotto la media europea e migliore soltanto di quello bulgaro e rumeno), la sua disoccupazione al 20%, lo spettro di un benvenuto amaro quale l’avvio di una procedura per sforamento del tetto sul deficit di bilancio, la minaccia di un taglio severo nel pubblico impiego e il crollo degli investimenti esteri non sono esattamente il miglior biglietto d’ingresso in Europa.Un’Europa, come ben sappiamo, in cui la disoccupazione giovanile è il male oscuro e la crescita azzoppata dalla crisi – e, sovente, anche dall’inadeguatezza delle sue classi dirigenti – ne è la causa primaria. Con un rapporto deficit/Pil che si avvia al 4% e pessimi auspici sulle proprie virtù economiche, la Francia non ha titoli per moraleggiare sull’Unione. Come non ne ha la Germania, la cui morsa rigorosa (condivisa da ringhiosi e impauriti alleati come l’Olanda e la Finlandia) non ha prodotto alcun frutto ma soltanto impoverito e umiliato – il caso della Grecia, con il 50% di disoccupazione giovanile contro il 7,5% della Germania, è sotto gli occhi di tutti – i partner meno dotati e più deboli e non accenna ad attenuarsi prima che la cancelliera Merkel abbia incassato il nuovo mandato di governo alle elezioni di settembre.Ma come siamo giunti a questo punto? Quale Europa promettiamo a chi verrà dopo di noi, quale sogno stiamo vendendo a nazioni come la Serbia che attendono dal vertice dei capi di Stato e di governo che si apre oggi nella capitale belga l’avvio delle trattative per il negoziato di adesione mentre le cancellerie dei Ventisette febbrilmente limano e ricalcolano i costi della peggior crisi del dopoguerra?Come nelle carestie e nelle pestilenze dell’antichità si cerca spasmodicamente un capro espiatorio. Niente di più facile che rinvenirlo nell’euro, responsabile secondo molti (non solo euroscettici) di gran parte della crescita mancata e della crisi di liquidità: troppo forte sui mercati internazionali – dicono – troppo debole come moneta sovrana. Tuttavia, il presidente della Bce Mario Draghi insegna, solo «con la politica monetaria non si può creare vera crescita economica. Se la crescita è stagnante è perché l’economia non produce abbastanza o perché le aziende hanno perso competitività, e questo va al di là di quanto la Banca centrale può riparare». Le tensioni alla vigilia del vertice non mancano e non mancheranno: si va dal bilancio pluriennale 2014–2020 che l’Europarlamento ha bocciato all’inefficace Patto per la Crescita del 2012, dal credito alle imprese (l’origine prima dell’asfissia del mercato del lavoro) all’unione bancaria. «Se l’Europa si ferma, è perduta», ha avvertito il presidente del Consiglio Enrico Letta parlando alla Camera. Il lavoro, dunque, sarà la bussola del vertice, motore primo del benessere e della conciliazione sociale. Ma le politiche del lavoro – lo sappiamo – non sono disciplinate dai Trattati comunitari, la Ue può fare qualcosa, ma fino a un certo punto. Gli spiccioli, insomma. Il peso delle scelte individuali spetta agli Stati sovrani. E sarà questo il cuore del dibattito che si va ad aprire quest’oggi e si preannuncia molto duro.
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