Da disabile a super-abile: è questa lo sconcertante "cambio di classificazione" che è stato applicato all’atleta tedesco Markus Rehm. Meno abile prima o più abile dopo, ma comunque sempre un "diverso" discriminato. Significative al riguardo le parole di Christian Reif, medaglia d’argento, che saltando con due gambe in carne e ossa, era arrivato secondo nella competizione nazionale: «Vantaggio o non vantaggio Markus è un vincitore perché ha mostrato a tutti di che cosa sono capaci gli atleti con disabilità». Un motivo in più per evitare comunque un’umiliante e pregiudiziale discriminazione di chi è (apparentemente) diverso. In ambito sportivo il problema, dopo i casi di Pistorius e di Rehm, segna l’inizio di una discussione più generale sulla possibilità per gli atleti disabili di partecipare alle tradizionali competizioni gareggiando insieme agli atleti normodotati. Bisognerà fare un’attenta riflessione al riguardo e stabilire regole generali valide a livello internazionale per evitare disparità di giudizio e di trattamento. Le diversità non dovrebbero pregiudizialmente costituire necessariamente un ostacolo o una differenza. Anche per i cosiddetti "diversamente abili". In proposito, un precursore illuminato della riabilitazione "a tutto campo", Don Carlo Gnocchi (1902-1956), aveva idee ben chiare. Continuamente egli sollecitava i suoi "mutilatini" disabili a essere ben consapevoli e quasi "fieri" della propria particolare condizione. Riabilitare significava per lui intervenire per "restaurare" con quei corpi dilaniati dalle mine o dalle malattie le persone umane in essi incarnate.
Restaurare era il verbo che indicava la capacità artigianale di «rifare le parti guaste o mancanti, ripristinare, ristabilire» ed egli lo applicava alla lettera non alla categoria delle cose, degli oggetti, ma a quella degli uomini, dei soggetti. La restaurazione della persona umana aveva per lui una duplice valenza: esprimeva da un lato la necessità – tecnicamente indifferibile – di recuperare le parti perse dell’individuo (un arto, l’abilità del movimento, la parola o l’udito, il pieno intelletto), ma significava anche dall’altro l’esigenza – umanamente indilazionabile – di incarnare la persona di Gesù Cristo in ogni uomo sofferente (nel corpo, nello spirito, nell’anima). La riabilitazione aveva dunque in sé una duplice inscindibile valenza: civile e religiosa. Era una vera e propria "resurrezione laica", destinata a ridare piena capacità fisica e completa umanità spirituale a chi era rimasto segnato dal male del mondo.
Per questo, sosteneva il prete-riabilitatore milanese, chi era diventato un mezzo corpo non in grado di camminare perché privo di gambe o chi era rimasto un tre quarti di corpo perché privo di una mano o di un piede non solo non doveva farsi compatire, ma doveva dimostrare a se stesso e agli altri che la propria "abilità residua" rappresentava un’opportunità per evidenziare una grande capacità, utilizzando lo sport come un modalità di confronto con i "normali" per dimostrare di non essere diversi, né inferiori, né meno abili di loro. Una lezione di vita e di umanità, che trasmette un messaggio non solo di grande attualità ma anche di profondo significato profetico, per evitare che la diversità (qualunque sia) si possa trasformare in discriminazione.