Agenzia Romano Siciliani
Da qualche tempo in Italia attorno al tema della natalità, o meglio, della voglia di diventare genitori, si respira un’aria pesante, non tanto di tristezza o delusione, ma di vera rassegnazione. Per certi aspetti è comprensibile, dato che dopo tanti anni consecutivi di cali delle nascite e dei tassi di fecondità (oggi siamo a 1,2 figli per donna) una radicale inversione di tendenza è diventata impossibile, e non solo perché le potenziali madri sono ormai troppo poche. Essere rassegnati, insomma, è molto razionale, soprattutto se si guarda fuori dai confini nazionali e si nota che la fecondità diminuisce ovunque: nei Paesi con il welfare più avanzato e in quelli con meno risorse per le famiglie; nei contesti in cui resiste forte la cultura patriarcale, come in quelli dove la parità di genere è una conquista radicata.
Quanto sta avvenendo ha contribuito al formarsi di un’opinione assai diffusa, tanto a destra quanto a sinistra, secondo la quale nessuna misura governativa potrà più cambiare le cose; e dunque spendere per provare a sostenere la natalità, o il desiderio di essere genitori, non avrebbe molto senso. Un altro argomento a sostegno del “rassegnazionismo” è che siano proprio lo sviluppo e il welfare tipico delle società più ricche, insieme alla cultura che le caratterizza, la ragione alla base della denatalità globale. Questo tipo di approccio, in realtà, si fonda su argomentazioni non solidissime, se non parziali. È curioso, ad esempio, che ci si trovi a negare l’utilità di politiche per la natalità in un Paese come l’Italia, in cui a sinistra si è sempre guardato ai sostegni alle famiglie in termini strettamente redistributivi, mentre a destra non ha mai preso forma un’area veramente “pronatalista” nel senso liberale del termine. Ed è altrettanto singolare che si parli di inutilità dei sostegni in uno dei contesti storicamente più aridi di idee e di misure a favore delle famiglie con figli, nonostante gli sforzi degli ultimi anni. È come se si volesse rinunciare a correre già pochi metri dopo che si è partiti.
Una rapida escursione oltre le Alpi può aiutare a chiarire il concetto. In Francia, nazione considerata un modello quanto a politiche familiari, nel 2024 il tasso di fecondità è sceso a 1,59 figli per donna, mentre solo quindici anni fa il dato era superiore a 2. Per qualcuno questo declino sarebbe una prova ulteriore che i sostegni alla natalità sono diventati ormai superflui. È così? In realtà le nascite in Francia hanno incominciato a calare decisamente partire dal primo taglio dei sostegni universali effettuato nel 2014, cui ne sono seguiti altri. Inoltre, la generosità fiscale transalpina è stata orientata più che altro a promuovere le famiglie numerose, concedendo meno ai nuclei più piccoli, e qualcuno sostiene che l’evoluzione dei costumi sociali avrebbe meritato un aggiornamento mirato delle politiche. Allora il punto, forse, non è se i sostegni funzionano o meno, ma se siano adeguati al nuovo contesto.
Tornando al panorama globale, è chiaro che la cultura della famiglia e delle relazioni stia risentendo di una trasformazione epocale dovuta anche al maggiore benessere. Tuttavia, considerare il ruolo dello sviluppo come fattore determinante può offrire una chiave di lettura parziale. Un certo filone di ricerca, qualche anno fa, aveva rilavato che nei Paesi avanzati la ripresa dei tassi di fecondità era stata favorita dalla capacità di assicurare migliori e ulteriori progressi nei livelli di sviluppo umano. Come dire che, nei territori mediamente più ricchi, procedere a passo lento equivale ad avere un fardello. Più di recente questa chiave di lettura è stata confermata da nuovi studi, che interpretano però la caduta della fecondità successiva alla crisi del 2008 come un punto di rottura dello schema, anche a causa dell’aumento dell’incertezza percepita, in un contesto in cui può andare meglio se ci sono buone prospettive di lavoro, pari opportunità e facilità di conciliazione. In altre parole, se nascono meno bambini è anche perché quanto a sviluppo e welfare la situazione non è così buona come si pensa.
Se si guarda alla realtà di tanti Paesi occidentali, e in particolare all’Italia, oggi a emergere è una realtà problematica: i redditi dei giovani sono mediamente più bassi rispetto a un tempo e in relazione a quanto si ritiene necessario avere nelle società avanzate, considerando quanto serve per comprare una casa e mantenere una famiglia, con i figli che non devono più solo mangiare, ma anche studiare, formarsi, comunicare, e se possibile anche qualcosa di più. La regola dei “due stipendi” non è solo una necessità connessa all’obiettivo della parità di genere, ma può essere un tributo all’assetto che si è dato il sistema economico di questo tempo in fatto di retribuzioni.
La cultura non conta, allora, nel determinare la composizione della famiglia? Certo che sì. Le teorie sulla transizione demografica hanno mostrato come dietro alla riduzione della taglia delle famiglie vi siano forti componenti culturali, connesse agli stili di vita moderni. Basti pensare che in epoche passate i poveri in Europa avevano molti più figli non soltanto degli europei di oggi, ma persino di molti Paesi africani, aperti alle opportunità e ai vari condizionamenti del villaggio globale.
Il fatto è che contrapporre gli elementi culturali a quelli economici potrebbe non essere il modo migliore per affrontare il problema. Molti demografi concordano ad esempio nel rilevare che in questa fase storica nelle società del benessere diventare genitori è, purtroppo, una condizione sempre più correlata al reddito. Gli uomini e le donne con redditi bassi e bassa istruzione hanno cioè meno probabilità di sposarsi o di avviare una convivenza, e poi anche di avere figli. È brutto da dire, ma dalle ricerche emerge che non aver studiato molto e trovarsi a guadagnare poco sia ormai penalizzante ai fini di una minima realizzazione familiare. Un discorso che vale per gli uomini, e da qualche tempo anche per le donne. Ad avere “successo”, invece, è chi riesce a raggiungere una serie di (pre)condizioni economiche che richiedono molto impegno, e soprattutto più tempo di una volta. E il tempo, come noto, non è un grande amico della natalità.
Tutto questo può essere difficile da accettare, può persino suggerire il bisogno di una rottura valoriale rispetto a uno schema che appare opprimente per gli esseri umani. Tuttavia, se si guarda alla denatalità non come a una inevitabile conseguenza dello sviluppo, ma come al risultato delle nuove disuguaglianze che stanno emergendo nelle società del benessere, anche l’approccio al problema può cambiare. Nessuno ha la verità in tasca, ma affermare che le politiche pronataliste non servono, o non servono più, può essere un clamoroso errore. Casomai si tratta di capire quali misure possano funzionare, a seconda dei contesti e delle caratteristiche culturali e sociali dei diversi territori, senza voler applicare o imporre modelli solo perché coincidono con la propria visione del mondo oppure sembrano funzionare altrove.
È un esercizio non facile, e richiede il superamento di un altro dualismo: quello che colloca da una parte chi vorrebbe rilanciare le nascite per ragioni economiche, cioè per risolvere i problemi del welfare, delle pensioni, della sanità, delle imprese che non trovano manodopera; dall’altra chi vorrebbe nascessero più bambini per ragioni identitarie e di riproduzione della propria comunità. Invece le misure per accompagnare la nascita di nuove famiglie dovrebbero semplicemente mettere le persone, i giovani di oggi e di domani, nella condizione di sentirsi veramente liberi di realizzare il desiderio di diventare genitori.