Il giorno dopo la proclamazione della sconfitta militare della guerriglia tamil da parte dell’esercito governativo dello Sri Lanka è difficile dire – a dispetto delle apparenze – chi abbia vinto davvero. In molte città del sud del Paese, a maggioranza cingalese, ieri è risuonato il grido 'Jeyawewa'. Ma davvero è possibile cantare vittoria dopo un conflitto durato la bellezza di 26 anni, che è costato fra le 70 e le 80mila vittime, metà delle quali civili? In realtà è più facile elencare chi ha perso: la società civile srilankese, che per anni si è battuta per una soluzione pacifica del conflitto; alcuni leader religiosi che, coraggiosamente, si sono fatti promotori di iniziative di dialogo; il governo di Colombo. Sconfitta è certo la comunità internazionale che ha colpevolmente lasciato incancrenire la guerra. Se oggi l’Unione Europea chiede un’inchiesta indipendente sulle violazioni dei diritti umani da entrambe le parti, si tratta di una mossa sacrosanta, ma tardiva. Ora che le 'Tigri per la liberazione della patria tamil' sono state sconfitte e il loro capo ucciso insieme con lo stato maggiore dei ribelli, davvero per lo Sri Lanka è un giorno nuovo? In tanti lo sperano. A cominciare dal popolo srilankese, di entrambe le etnie. Un popolo che, durante questi lunghi anni è stato letteralmente ostaggio del conflitto. E se è vero che le Tigri non hanno esitato a utilizzare la vasta gamma dei più atroci espedienti (non ultimi i civili come scudi umani), è altresì vero che il governo di Colombo è arrivato a lanciare bombe in zone sospettate di presenza tamil col rischio di uccidere anche donne e bambini. Oggi che uno dei due contendenti prevale, non si può certo gioire come quando nei film arrivano i nostri. La realtà è terribilmente più complessa. Prendo a prestito le parole di un giornalista srilankese, direttore di
The Sunday Leader, ucciso in un agguato a Colombo l’8 gennaio scorso. Da cristiano qual era, coraggioso sostenitore della pace, Lasantha Wickramatunga denunciava tanto il 'terrorismo separatista' quanto il 'terrorismo di Stato nella cosiddetta guerra al terrorismo'. In quello che è diventato il suo testamento spirituale, scrisse: «L’Ltte è una delle organizzazioni più assetate di sangue che abbiano infestato il pianeta. Deve essere sradicata. Ma farlo violando i diritti dei tamil, bombardandoli e sparandogli senza pietà, è una vergogna per i cingalesi». Se ora la guerriglia tamil è definitivamente annientata, non è però finito il problema-tamil. Così come non si possono dimenticare le ferite che i militanti tamil hanno provocato nella popolazione cingalese in questi anni. Per arrivare alla riconciliazione e alla pace, come domenica Papa Benedetto XVI ha auspicato all’Angelus, è necessario che tacciano le armi e la parola passi alla politica. Occorre anzitutto che sia assicurata alla popolazione civile tutta l’assistenza necessaria: decine di migliaia di profughi hanno bisogno di interventi urgenti sul fronte alimentare e medico. «Bambini, donne, anziani – ha ricordato il Papa – a cui la guerra ha tolto anni di vita e di speranza». La speranza è il bene più introvabile nello Sri Lanka di oggi, un Paese che per troppo tempo ha investito nella guerra (fino a un quarto delle finanze statali), ipotecando così il suo futuro.Se la comunità internazionale vuole davvero restituire speranza a un popolo duramente provato, questa è l’ora in cui portare aiuto urgente e manifestare solidarietà concreta. Come ai tempi dello tsunami.