Caro direttore, stiamo fallendo! Stiamo fallendo nell’impresa più ardua che questa epoca ci ha riservato: riconoscere nell’incontro con l’altro la nostra sola possibilità di porci domande essenziali. Noi invece resistiamo perché pensiamo sempre di avere ragione, e – cosa più grave – non riflettiamo mai sul perché delle diversità. L’educazione dovrebbe insegnarci proprio a farci domande, mentre viene utilizzata per radicarci nelle nostre convinzioni. Dobbiamo essere consci della complessità che vi è nel tentativo di comprendere l’altro invece di ridurlo al più detestabile aspetto della sua persona. Dovremmo invece guardarlo nella bellezza della sua complessità e nella molteplicità delle sue manifestazioni: essere educati alla sensibilità, che è quella qualità che ci consente di entrare in relazione con l’altro riconoscendolo come un altro me stesso. Proprio la complessità del nostro mondo, dilaniato da tensioni sociali e crisi economico-valoriali, ci richiede di manifestare questa nuova abilità ora. Dobbiamo esprimere un più alto livello di ascolto e maturare nuove comprensioni, prima fra tutte il sapere riconoscere tutta la ricchezza che c’è nella diversità. Altrimenti assistiamo a scene come quella della fotoreporter ungherese che sgambetta quell’uomo facendolo ricadere sul suo stesso figlio. Siamo una moltitudine di individui raggruppati in qualche centinaio di Paesi, ma siamo tutti dotati di un linguaggio per comunicare, di strumenti per facilitare le nostre vite, di un’organizzazione sociale. C’è una profonda unità, un’identità umana che si è presa gioco di noi manifestandosi in tante diversità, ma tutti apparteniamo alla medesima specie, molto più di quanto si appartenga ai nostri genitori, alla nostra famiglia, alla nostra società, alla nostra cultura, ai nostri riti, abitudini, convinzioni. Il tesoro dell’unità umana è la sua diversità e il tesoro della diversità umana è la sua unità. Dobbiamo divenire bifocali: pensare a questa unità senza ritenere secondaria la diversità. In tema di diritti umani il 'diritto alla vita', non può non contenere una specifica: il diritto alla vita nel rispetto della diversità. L’essere umano deve capire di non valere per la sua capacità di imporre se stesso, quanto invece per la sua capacità di accogliere tutta quella diversità che sarà per lui ricchezza. Proprio grazie ai nostri errori, ai nostri fallimenti, alle nostre incongruità, ci dobbiamo educare a credere nella collettività a svantaggio dell’individualità, alla sensibilità a svantaggio della prevaricazione, alla gratitudine a svantaggio dell’arroganza. Mentre osservavo le immagini di quello sgambetto che non riesco a dimenticare, restavo atterrito, inerme. Poi osservavo la mia famiglia, mia moglie e i miei figli, e sentivo sorgere in me la preoccupazione. Mi preoccupa il disorientamento della gente che è stata privata dei valori base come se improvvisamente non fossero più importanti. Mi preoccupa l’aridità culturale l’assenza di riferimenti nella società, l’arrendevolezza della gente al desiderio di ripartenza e di rinascita. Mi preoccupa il vuoto interiore di quella fotoreporter ungherese a cui però sono anche grato. Perché con ciò che ha fatto, ma ancor più per come lo ha fatto, ha fatto da specchio alla società che l’ha generata. Grato perché adesso, per andare dove vogliamo, sappiamo almeno da dove partiamo. Ripartiamo da lei. Ripartiamo dalla totale assenza di consapevolezza di quel gesto, perché lei è un po’ anche tutti noi: confusi, inconsapevoli, preoccupati, disorientati, violenti. Quella donna è uno specchio, è un dono evidente che ci aiuta a dire 'io mai più così'! Io non la giustifico perché è solo un prodotto della società, ma non giustifico nemmeno me stesso per tutte quelle volte in cui potrei fare potrei fare di più, potrei fare la differenza, quando potrei prendere responsabilità ma non lo faccio, convinto che non dipenda da me. 'Ripartire da lei' significa per me 'ripartire da me stesso', significa spostare il focus da fuori di me a dentro di me, convinto che la società 'fuori' di noi altro non sia che un riflesso del nostro mondo interiore. Se vuoi occuparti di quell’uomo sgambettato, occupati per primo di te stesso. A quel punto sarai libero di decidere se il ruolo che vuoi recitare in questa vita sia quello di colui che accoglie quel profugo allargando le tue braccia, o essere colui che lo fa inciampare allungando la gamba, oppure colui che allunga la mano per farlo rialzare. Ma una cosa non ci è più consentito di fare: restare a guardare.