La natura «ha preteso che, per gli uomini, l’amicizia non fosse soltanto motivo di gioia, ma che fosse anche necessaria. Per questo motivo, ha ripartito le doti tanto del corpo quanto dello spirito, perché non vi fosse nessuno tanto provvisto di tutte da non aver bisogno in qualche circostanza dell’aiuto dei suoi simili, anche se umili, e non ha attribuito a tutti le stesse cose e nella stessa misura, per far sì che la reciproca amicizia uguagliasse questa disuguaglianza. Ecco il motivo per cui un prodotto viene da una regione e uno da un’altra, perché proprio il bisogno insegni ad avere reciproci scambi». Il grande umanista cristiano Erasmo da Rotterdam stampava queste attualissime parole nel 1517, nello scritto che dedicava a Il lamento della pace respinta e annientata da ogni nazione . La Pace vi si presenta come «origine, madre, nutrice, benefattrice, protettrice di ogni bene posseduto sia dal cielo sia dalla terra»; in assenza di essa «non v’è cosa in nessun luogo florida, non v’è cosa sicura, non v’è cosa pura o santa o gioiosa per gli uomini ».L’appello della Pace, che rappresenta un filo rosso dell’intera biografia intellettuale di Erasmo, esprime un sentimento e una preoccupazione molto diffusa fra gli intellettuali del passaggio di quel 'secolo di ferro', fitto di appassionate perorazioni di questo genere. La cura per il creato che Dio assegna alla singolare natura dell’uomo – intelligenza, libertà, capacità di plasmare l’intero habitat mondano – è uno dei grandi temi dell’Umanesimo, particolarmente cristiano. Ed è scelto ora da Papa Benedetto per la Giornata mondiale della Pace 2010. Ci sono molte analogie, della nostra attuale congiuntura, con quel passaggio d’epoca, che ci possono incoraggiare e istruire. Ne cito soltanto due. La prima è l’orrore diffuso per lo stato di conflittualità permanente, in scandaloso contrasto con l’autoglorificazione 'estetica' dei nuovi poteri, che stendono come un velo di rimozione sulla 'bruttezza' di un habitat che si vuole civilizzato, ed è invece pieno di rifiuti e di rovine: degradato dalla nevrotica eccitazione di una perenne tensione di tutti contro tutti, che rende indifferenti al livello di distruzione fisica e morale che plasma l’ambiente umano. La seconda è la coscienza di una cultura della 'produzione' dei beni che va ossessivamente deprimendo la cultura della 'generazione' del bene: quel bene che non si compra e non si vende, perché passa attraverso la cultura del dono, la cura dei legami familiari, amicali, cooperativi, la passione per la formazione congiunta della mente e dello spirito, l’estetica della moderazione del consumo, della felicità dei luoghi, dell’intelligente complicità con il rigenerarsi della natura vivente. Nel XVI secolo, più la situazione diventava tragica più il sogno si ingigantiva. Non perdiamo una seconda occasione. I 'buchi' nella razionalità del reale sono sempre 'lacerazioni' dell’immaginazione del bene. Benedetto XVI, evocando san Paolo (Rom 8) ha lanciato un appello determinato e preciso. «Il 'Creato' geme – lo percepiamo, quasi lo sentiamo – e attende persone umane che lo guardino a partire da Dio» (Incontro con il Clero di Bressanone, ripreso nel bel documento della Cei per la Giornata del creato del prossimo 1° settembre). Ora, dopo aver illustrato puntualmente il nesso profondo fra economia dei beni ed economia del bene, che chiede uno spirito di cooperazione nuovo e globale, lancia il suo appello per la «custodia del creato» in favore della pace. La chiave è biblica e cristiana, da sempre: «Tutti gli esseri dipendono gli uni dagli altri nell’ordine universale stabilito dal Creatore». La porta che apre è quella di un umanesimo radicale degli affetti condivisi, che hanno cura della casa comune. La libertà di custodire il creato, assegnata da Dio, è il sogno della ragione migliore che abbiamo, per non abitare la terra invano. Bisogna correggere la politica, altro che politicamente corretti.