La Chiesa in Terra Santa può favorire questa prospettiva? Credo che tutte le Chiese cristiane che da secoli sono qui abbiano elementi in più per aiutare ad avere una visione completa. Possono aiutare ad avere quel giudizio equilibrato e quello sguardo orientato al bene di tutti, che le parti coinvolte nel conflitto faticano ad avere. La presenza delle Chiese cristiane è una presenza che è lontana dal fanatismo politico o religioso che si vedono nell’una o nell’altra parte. Il parroco di Gaza è stato ricevuto e incoraggiato dal Papa. Il fatto che il parroco sia rimasto lì durante il conflitto ha quindi un significato non solo per la Chiesa in Terra Santa? Noi rimaniamo accanto alla nostra gente, siamo dentro alla realtà, qualsiasi essa sia. Stiamo dentro alle sofferenze della gente e le nostre chiese sono sempre aperte a tutti. Questo mostra chiaramente chi siamo, qual è la nostra autentica identità. A Gaza come in Siria, come in Giordania, come anche in Iraq. La Comunità internazionale dovrebbe quindi, secondo lei, ascoltare anche la voce delle Chiese del Medio Oriente? Consultare il parere dei pastori delle Chiese che stanno, che vivono sul posto potrebbe contribuire a prendere giuste decisioni, potrebbe evitare tanti passi sbagliati. Non ascoltare la voce dei patriarchi delle Chiese ha portato a tanti sbagli. Purtroppo la politica che si persegue nell’area è una politica di interessi. Una politica che elude il grido dei pastori. La nostra presenza o la nostra non presenza qui, per la comunità internazionale, dice poco. Può fare un esempio di questa politica? Basta pensare a Gheddafi. Per quarant’anni è stato trattato come amico. Dopo quarant’anni hanno scoperto che era cattivo. Ma c’erano altri che erano anche peggio di Gheddafi e non sono stati toccati. Si cambiano i regimi e si distruggono Paesi solo per favorire certi interessi. Ma cosa deve fare l’Occidente per difendervi e difendersi dagli estremisti? Intanto l’Occidente dovrebbe intervenire in modo logico, non intervenire solo quando i suoi interessi sono minacciati. In uno dei discorsi pronunciati in Giordania, rivolgendosi ai popoli della Siria il Santo Padre definiva 'criminali' quelli che vendono armi. Nell’omelia che lei di recente ha tenuto a Siracusa ha affermato che «l’Isis inizialmente è stato supportato dalla comunità internazionale». Può spiegare questa affermazione? Io ritorno alla Siria, perché tutto è cominciato da lì. Per abbattere il regime di Assad la comunità internazionale aveva supportato questi gruppi estremisti. La comunità internazionale e l’America ci hanno poi 'regalato' tutti gli estremisti, tutti questi pazzi dell’Europa che hanno trovato rifugio in Siria per combattere contro un regime che non piaceva all’America, non piaceva a Israele e alla comunità internazionale. Il regime sta ancora in buona salute e i morti aumentano di numero. È una politica cieca. Si è considerato però anche il silenzio di molti leader del mondo arabo sia per quanto avvenuto a Gaza sia rispetto al conflitto per il potere jhaidista in Iraq... Non sono mancati articoli di intellettuali islamici, di singoli musulmani che hanno espresso la loro contrarietà di fronte agli attacchi, alle violenze e all’ideologia degli jhaidisti. Ma da parte di molti governi dei Paesi arabi è mancata e manca totalmente una chiara e netta dichiarazione e posizione. Non c’è. Anche questi governi hanno evidentemente i loro interessi da proteggere. Il problema del fondamentalismo comunque resta. A suo parere come si può combattere? La nostra domanda è: chi è dietro, chi alimenta il fanatismo? Ma chi esalta in nome di Dio la violenza può essere neutralizzato solo da una buona e sana educazione. Se questa educazione non c’è si pagano i risultati. Il punto è questo. Tutto dipende da cosa s’insegna ai nostri bambini. Una cattiva educazione predispone al fanatismo, una buona educazione prepara le basi per un dialogo vero che tutti vogliamo. Il fanatismo, il fondamentalismo si trovano in diverse parti, non è una caratteristica solo degli islamisti, di fanatici rappresentanti dell’Islam. Ci sono anche da parte israeliana. Lei si riferisce a quei gruppi di coloni che in Israele si firmano 'price tag' e compiono attacchi contro cristiani e musulmani? Ho sofferto molto lo scorso anno per gli attacchi e le scritte ingiuriose e offensive contro di noi, da parte di questi gruppi, apparse sui muri delle nostre chiese. Le autorità hanno deprecato e denunciato simili atti. Ma non serve deprecare se poi non si porta in giudizio chi commette questo e non si mette il problema anche in seno all’educazione. E mi chiedo allora se sia appropriata l’opera di educazione e prevenzione da parte delle istituzioni israeliane per contenere tali fenomeni. Ho ricevuto diverse telefonate da alcuni professori universitari che hanno condannato totalmente tali atti e sinceramente mi chiedevano: «Che cosa si può fare?» Ho risposto: «Voi siete a contatto con tanti giovani, tanti studenti, per favore insegnate loro che cosa significa il rispetto degli altri, la democrazia, la libertà». Sono cose che ogni nazione equilibrata può e deve condannare e non permetterne lo sviluppo attraverso l’educazione. E cosa pensa riguardo alla proposta di arruolamento dei cristiani arabi nelle esercito d’Israele? A livello individuale ognuno è libero di agire come crede. Ma penso che questa chiamata persegue il fine di dividere la comunità araba nel suo interno, di lacerare la comunità composta da musulmani e cristiani che da sempre coabitano, per affermare che i cristiani non sono arabi. I cristiani di qui, come lo sono anch’io, sono al cento per cento cristiani e al cento per cento sono arabi. Nessuno può cambiare questo e fare carte false. Nessuno può far credere altro. Se qualcuno ha accettato questa proposta se ne assumerà la responsabilità. Si trovano purtroppo sempre alcuni deboli che sotto pressione o sotto promessa di denaro possono fare questo. Recentemente lei ha potuto incontrare i profughi iracheni in Giordania. Che cosa ha potuto vedere e ascoltare? Ho visitato il centro aperto dalla Caritas di Giordania per i profughi di Mosul. Ho visto una situazione molto drammatica. Tanti non hanno voluto parlare per il dolore, per lo strazio di aver lasciato in Iraq figli o figlie. Non sappiamo al momento quale può essere il loro futuro. Se resteranno lì o no. Indietro non vogliono tornare perché non è rimasto più niente. Noi come patriarcato ci siamo impegnati a dare loro aiuto materiale e morale. Faccio appello di solidarietà anche alle comunità internazionali e alle diocesi italiane per aiutare queste anime.
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