Quel che molti temevano, qualcuno aveva previsto e nessuno ha cercato di evitare, alla fine è accaduto: l’Ucraina sprofonda in un girone infernale, la prova di forza in atto da tre lunghi mesi fra governo e manifestanti è degenerata in scontri violenti provocando un bagno di sangue. Kiev brucia e la Maidan, piazza simbolo della ribellione, è avvolta dalle fiamme.A innescare il grande incendio sembra sia bastata una piccola miccia, l’ennesimo rinvio della riforma della Costituzione che doveva essere discussa martedì nell’aula del Parlamento. Una decisione che è suonata come una beffa e ha spinto migliaia di dimostranti a gridare la loro rabbia di fronte alla Rada, la sede dei deputati. Nel blu delle bandiere agitate dai filo-europeisti si è fatto largo il nero delle giacche imbottite degli estremisti di destra, armati di spranghe e bombe molotov. Provocazioni alle quali la polizia ha reagito andando all’assalto della Maidan con granate e blindati, nel chiaro intento di metter fine una volta per tutte alla protesta che da novembre paralizza il centro della capitale.Un’operazione "anti-terrorismo" che ha seminato terrore e morte e che da ieri ha visto il massiccio dispiegamento non solo dei Berkut, i terribili agenti anti-sommossa, ma anche di reparti dell’esercito. «Le forze d’opposizione hanno superato una linea chiamando la gente alle armi, bisognava intervenire», si giustifica il presidente Yanukovich. Ma è lui ad aver oltrepassato il segno. Nonostante le finte aperture non ha mai accettato l’idea di ridurre i propri poteri e di andare alle elezioni come chiedeva la piazza, decisa a resistere a oltranza. Il suo imperativo era quello di metter fine a una protesta che si stava allargando e si configurava «come un tentativo di colpo di Stato». Parola di Putin, che da Mosca faceva giungere all’alleato di Kiev un chiaro sostegno e un sottinteso monito a riportare l’ordine in un Paese strategico per le ambizioni geo-politiche della Russia. E forse non è un caso che la repressione scatenata da Yanukovich abbia preso il via nel giorno in cui il governo ucraino ha incassato la seconda tranche dei 15 miliardi di dollari promessi dallo zar del Cremlino. Putin può cantare vittoria, ma la partita non è ancora conclusa. Il rischio, già paventato alcune settimane fa da Lech Walesa e sottolineato recentemente dal ministro degli Esteri italiano Emma Bonino, è quello di «una guerra civile alle porte dell’Europa». L’Ucraina è una nazione profondamente divisa tra l’ovest che aspira a entrare nella Ue e le regioni dell’est dove si parla e si ama il russo.
È da oltre vent’anni che la Cia nei suoi rapporti prevede che «prima o poi l’Ucraina si spaccherà in due», e a giudicare dalla ruvidezza poco diplomatica con cui finora Washington è intervenuta nella crisi di Kiev si direbbe che la Casa Bianca punti allo scenario peggiore. Al momento è l’Europa a uscire sconfitta, complici il protagonismo muscolare della Russia e il velleitarismo insensato dell’America. Non va dimenticato che tutto ha avuto inizio con il brusco e inatteso rifiuto da parte di Yanukovich di firmare il trattato d’associazione con la Ue e la conseguente massiccia protesta della Maidan, la piazza Indipendenza ribattezzata dai manifestanti piazza Europa. «Stiamo lottando per la nostra e per la vostra libertà», ha scritto un intellettuale della Chiesa ortodossa, che si è schierata a fianco dei dimostranti, Kostantin Sigov, rivolgendosi ai cittadini del Vecchio Continente.Evitare il baratro, avviare un dialogo sempre più difficile tra Yanukovich e l’opposizione, trovare una soluzione politica a una crisi che sta precipitando verso la tragedia, tutto questo è qualcosa che solo l’Unione Europea può cercare di mettere in atto. Le sanzioni non servono, colpiscono il popolo che si vorrebbe aiutare e non il regime che si vorrebbe punire. L’Ucraina è un test decisivo che l’Europa non può fallire. Per la nostra e per la loro libertà.