In Italia, Paese all'avanguardia sul fronte delle leggi antidiscriminazione, resta irrisolto il nodo dei diritti dei "caregiver" - EPA
Ogni settimana ricevo uno o due – a volte anche più – libri scritti da madri o da padri di figli con disabilità. Sono diari, biografie, appelli, a volte disperati e sempre crudi nel loro rispecchiare una quotidianità di fatica e sofferenza, di difficoltà estrema che riguarda qualunque gesto del vivere quotidiano. Alcuni sono redatti con attenzione e cura, molti sono essenzialmente sfoghi, delle psicoterapie (senza lo psicologo), letteralmente un buttare addosso una montagna di dolore a chi poi li leggerà (e spesso possibili editori mi chiedono di dare un giudizio, quindi succede che li legga soltanto io).
In questi anni – 50 per l’esattezza – durante i quali mi sono occupata del tema della disabilità con tutti i suoi risvolti credo di aver letto centinaia di queste lettere che ci chiamano in causa (e non soltanto negli ultimi quattro anni, che hanno visto la trasmissione televisiva O anche no fare da catalizzatore e grande imbuto per un numero pazzesco di richieste e di segnalazioni). Se dovessi dire quanti di questi lavori hanno la dignità vera e propria di libri, beh, direi che si possono contare con le dita d’una mano. Per questo motivo quando la casa editrice Elliot mi ha girato il libro di Ada d’Adamo Come d’aria (che era stato da loro già pubblicato) ho capito fin da subito di trovarmi di fronte a qualcosa che avrebbe potuto diventare non solo un lavoro importante, da non dimenticare, ma anche uno strumento essenziale per aiutarci a cambiare le cose. Ma come si cambiano le cose? Le cambiamo attraverso i lettori (devono essere tanti, però!), le cambiamo attraverso un movimento di famiglie.
Le grandi leggi di civiltà italiane sono tutte nate dall’impegno delle famiglie. E anche le grandi – chiamiamole così – syndication, cioè le associazioni che fungono anche da patronati e che raccolgono gli invalidi civili, i ciechi, i sordi, i neurodivergenti: ebbene, tutte nate dalle famiglie. Oggi le associazioni storiche non hanno più la rappresentanza che avevano nell’immediato dopoguerra quando si sono affacciate nel panorama italiano, anzi, per essere precisi e sinceri, rappresentano soltanto interessi di piccoli e piccolissimi gruppi. Addirittura abbiamo delle associazioni che sono presiedute dai parenti diretti dei presidenti del passato: qualcosa di ereditario che non ha alcuna corrispondenza con il lavoro di tutela delle minoranze dei più deboli che loro dovrebbero svolgere. Nel contempo, sono nate associazioni “altre” perché è cambiata la percezione della disabilità, ed è cambiata, per esempio, nel mondo delle persone con problemi mentali: ci troviamo con una popolazione affetta da disturbi dello spettro autistico che arriva quasi a settecentomila persone, un numero impressionante rispetto ai cittadini del nostro Paese.
Tornando ai lavori di denuncia e a queste biografie, Come d’aria è certamente un piccolo grande capolavoro che si può annoverare tra quei cinque o sei racconti di vita che si trasformano nei libri perfetti di cui parlavo. Voglio ricordare, fra i pochi, il libro di Giuseppe Pontiggia Nati due volte, o quelli di Daniele Mencarelli Tutto chiede salvezza e Fame d’aria. Ci sono poi altri genitori-scrittori le cui testimonianze (perché il valore reale di questi lavori è quello della testimonianza) rappresentano un materiale prezioso nella battaglia per l’emancipazione delle persone con disabilità affinché sia garantita loro la dignità di una vita serena, buona, e che soprattutto rappresentano una testimonianza forte contro la selezione genetica in atto in tutto il mondo occidentale. Ne abbiamo parlato su O anche no perché in alcuni Paesi europei i bambini con trisomia 21 non nasceranno più.
Il caso di Ada d’Adamo è diverso. Durante tutte le pagine del suo lavoro Ada dichiara in modo doloroso ma sincero che se avesse potuto conoscere la gravità della malattia e la difficoltà della vita che aspettava Daria, sua figlia, avrebbe scelto di rinunciare a lei. Dopo il mio incontro telefonico con Ada ho deciso di intervistarla immediatamente in radio per poi invitarla in televisione. E bene ho fatto perché è una delle pochissime se non forse l’unica testimonianza audio che di lei abbiamo. Dopo pochi giorni Ada è morta. Questo libro intreccia le due voci: la voce di Daria, a cui la madre fornisce le parole, e la voce di Ada che accetta la sua malattia, il suo tumore e combatte per non lasciare Daria senza una madre, ma alla fine soccombe.
La rete straordinaria che si è creata intorno a questo piccolo grande gioiello ha fatto sì che Come d’aria vincesse praticamente tutto quello che c’era da vincere anche dopo la morte della sua autrice: il Flaiano, lo Strega Giovani, lo Strega Off e infine il premio letterario più importante del nostro Paese, lo Strega. In realtà lei aveva già vinto la sua battaglia perché Come d’aria ha aggiunto un ulteriore tassello a questa bellissima gara per migliorare la vita di tutti: delle persone con disabilità, dei bambini, delle bambine e dei loro caregiver (che noi vogliamo chiamare “cura cari”), che stanno, almeno dagli anni Duemila, attendendo una legge di tutela.
Mentre aspettiamo Godot, ci chiediamo perché non si trovi immediatamente una soluzione per dare un minimo di sostegno a milioni di madri e di padri che tamponano i buchi del welfare italiano, affinché queste famiglie possano vivere e non soltanto sopravvivere. Io credo che il filo rosso che ci lega agli anni ‘70, a leggi di civiltà straordinarie con l’inanellarsi leggi come la scuola pubblica per tutti e la chiusura delle scuole differenziali, la chiusura dei manicomi con la legge 180, la legge sul collocamento lavorativo, la straordinaria legge che fa dell’interdizione un ferro vecchio (quella sull’Amministratore di sostegno) e che purtroppo è ancora poco conosciuta, ebbene, tutte queste leggi – a volte ben applicate, a volte non applicate per niente – ci raccontano di un’Italia che si pone all’avanguardia e che riesce a essere comunque un faro di civiltà esattamente come nei secoli passati per quello che riguarda il tema della pena di morte. Sì, perché Beccaria, colui che scrisse Dei delitti e delle pene è paragonabile a chi ha scritto i testi di queste leggi e a chi continuamente riesce a combattere per una quotidianità fatta di dignità e di rispetto. Per tutti i genitori caregiver italiani e per tutti i siblings (i fratelli e le sorelle caregiver) noi abbiamo continuato. Dico “abbiamo” perché si tratta di una squadra eterogenea, diversa: ci sono gli intellettuali italiani che (improvvisamente, direbbe qualcuno) hanno compreso quanto fosse importante questa battaglia, ci sono i milioni di abbonati alla Rai che ci seguono, che ci scrivono grazie a O anche no e a La sfida della solidarietà, ci sono le famiglie, ma anche gli operatori sociali, i medici, i pedagogisti, gli psicologi, i riabilitatori e i responsabili dei settori disabilità dei sindacati italiani, tutti coloro che non finiremo mai di ringraziare. Non posso permettere che questa vittoria ottenuta con tanta fatica vada sprecata, o che venga usata dalla tribù degli “amichetti-sti”, come li chiama giustamente Fulvio Abbate. Loro non sanno niente, cavalcano le mode (i trend, dovrei dire per affinità a questi che profondamente disprezzo), e basta. Non conoscono il dolore, lo usano. Peggio, si vestono a festa con l’altrui sofferenza, parafrasando Caproni in morte di Pasolini.
Come vedete, in questa lunga lista di appassionati lottatori, non sono citati i politici perché queste mancanze di scelte di campo e il tema del caregiver avrebbero dovuto essere le priorità che ogni Parlamento appena insediato dovrebbe porsi, e invece no. Osserviamo tantissime chiacchiere, passerelle, racconti e cose belle che si realizzano come lo Sport per tutti, la Scuola e la Cultura per tutti, la Bellezza per tutti e che noi, come attenti amanuensi, continuiamo a raccontarvi cercando di non farcene sfuggire neanche una. Ma rimane la realtà di una sanità piena di buchi, un’assistenza riabilitativa differente da territorio a territorio e, soprattutto, una legge che non c’è ed è quello che Ada d’Adamo, dalla prima all’ultima riga del suo libro, chiede, denunciandone la mancanza con la sua capacità di scrittura e la sua eleganza.
Purtroppo Ada d’Adamo ha scritto un unico libro, e solo per questo unico verrà ricordata: non potrà scriverne più, ma è riuscito a condensare tutte queste denunce e nel contempo tutto il bisogno nel richiedere un cambiamento non più procrastinabile. Questo libro lo dobbiamo a Daria e alla sua bellezza, interiore ed esteriore. Noi – mi ci metto anch’io, che sono mamma e nonna – siamo italiani, e per noi la bellezza è un elemento fondativo della nostra educazione e della nostra vita: siamo abituati alla bellezza, nasciamo nella bellezza e riusciamo a trovare, anche nella disabilità più grave (perché c’è, ve lo garantisco) la bellezza. Della “nostra” meravigliosa vincitrice – perché, ripeto, lei ha vinto tutto, e non mi riferisco allo Strega: lei ha vinto la gara della sua vita – riporto soltanto quello che scrive a pagina 46: «Desideravo la bellezza, l’ho detto. E tu, a dispetto degli occhi molto ravvicinati, delle sopracciglia unite, nonostante lo strabismo e la microcefalia, sei sempre stata una bella bambina. Si può dire che la bellezza sia stata insieme la tua condanna e la sua salvezza. Forse se avessi avuto qualcuna delle orrende malformazioni del volto assai comuni nell’oloprosencefalia, l’ecografia morfologica l’avrebbe rilevata e tu non saresti mai nata. Insomma, si potrebbe quasi dire che sei venuta al mondo in virtù della tua bellezza: esisti perché sei bella. È dura da ammettere, ma seguendoti nella tua giovane vita ho capito che esiste una disabilità “bella” e una disabilità “brutta” e che anche in questo “mondo a parte” le persone – dagli sconosciuti ai terapisti ai medici – subiscono il fascino del bello, proprio come avviene nel “mondo normale”. All’inizio questo mi infastidiva, mi domandavo se fosse giusto che gli altri si avvicinassero a te solo perché sei bella. Ma poi in quel “solo” ho trovato il senso più nobile e profondo della parola bellezza. Ho pensato che ciascuno di noi riceve almeno un dono dalla vita e che, nella sfiga generale, tanto vale approfittarne. Desideravo la bellezza e l’ho avuta: ho avuto te».
Un dono nella vita Ada lo ha avuto: è stato Daria. Noi invece come regalo grande abbiamo avuto lei. Il dono che ci lega, attraverso quel filo rosso, alle leggi di civiltà, ma anche uno straordinario exploit: quello di Ezio Bosso che ha coinvolto tutta l’Italia (e che mi è costato sacrifici e battaglie) e che si è infine realizzato nella sua stessa morte, quando quei pochi che non erano stati ancora coinvolti nella bellezza della sua arte legata alla disabilità sono stati travolti dalla commozione e dall’emozione.
Ci lega a O anche no che ogni settimana trova la bellezza nelle difficoltà. E di questo ringrazio la squadra, la Rai, – insieme ad Avvenire, che non ha mai lasciato sola la “nostra” gente –, chi ci segue e chi ci scrive, chi ci ama e che sa bene quanto noi ricambiamo questo amore.