Le polemiche sul disegno di legge che ha per oggetto le scelte di fine vita si sono negli ultimi giorni, e giustamente, placate: la tragedia abruzzese ha riproposto alla riflessione di tutti una verità elementare e cioè che la vita non è un valore di cui si possa calcolare l’entità, ma è piuttosto il presupposto ( incalcolabile!) di ogni valore: è questo, e non altro, il motivo per cui ogni tentativo, anche il più arrischiato e improbabile, di salvare una singola vita umana appare intrinsecamente giustificato, senza se e senza ma, anzi assolutamente doveroso. Ora però che lentamente le vicende abruzzesi si stanno incanalando verso una loro pur sempre tragica, ma inevitabile normalizzazione, cominciano a riemergere le polemiche e i dibattiti sul disegno di legge Calabrò e sul destino che lo attende nel passaggio a Montecitorio. È ormai sufficientemente chiaro che il nodo del dibattito, vertendo essenzialmente sul principio di autodeterminazione, è più ideologico che bioetico: esso è di vitale importanza agli occhi di tutti coloro che, nutriti da una visione antropologica radicalmente individua-listica, ritengono che il mancato riconoscimento legislativo dell’autodeterminazione rappresenti una lacerazione insanabile nel sistema dei diritti umani. Si aggregano a costoro tutti coloro che confondendo ( purtroppo!) l’autodeterminazione ( ideologica) con la libertà ( morale) ritengono che le scelte di fine vita vadano sempre « religiosamente » rispettate. Che poi queste scelte siano pressoché sempre del tutto astratte ( come quelle affidate a testamenti biologici) o motivate da situazioni di abbandono, di paura, di confusione, di mancata informazione è un dato che infastidisce le « anime belle » dell’autodeterminazione e su cui esse non si soffermano mai. Eppure, basta aprire gli occhi e guardarsi intorno per capire ciò che sta succedendo. Una riflessione bioetica, serena e non ideologica, sulle dichiarazioni anticipate di trattamento e sul diritto al rifiuto delle cure potrebbero trovare significativi punti di convergenza, come quelli che ormai da tempo si sono trovati in merito all’accanimento terapeutico, oggi concordemente rifiutato da tutti e che sono stati recepiti in diversi documenti del Comitato nazionale per la Bioetica. Ma per l’individualismo radicale che ormai caratterizza la cultura occidentale, riconoscere il diritto al rifiuto delle cure non basta. Il principio dell’autodeterminazione ha una sua intrinseca forza espansiva: se posso autodeterminarmi nel dire di no a una terapia, perché non posso autodeterminarmi nel dire sì al suicidio assistito? E perché la mia autodeterminazione andrebbe riconosciuta valida solo in contesti patologici estremi e non in ogni qualsiasi situazione, in cui a mia discrezione io voglia porre fine alla mia vita? Non sono domande esagerate o provocatorie: se ne discute con tutta serietà in diversi Paesi europei, in particolare in Svizzera, da quando Ludwig Minnelli ha dichiarato che « Dignitas » , l’organizzazione da lui fondata, ritiene che sia una « possibilità meravigliosa » quella di aiutare le coppie che siano desiderose di « morire assieme » e quella di favorire la morte del partner sano di un malato terminale.È su pretese del genere, su un « pendio scivoloso » di questo tipo che vorremmo che i fautori nostrani dell’autodeterminazione esprimessero un’opinione, non solo chiara, ma soprattutto motivata; che ci dicessero perché le condividono ( se le condividono) e – se non le condividono – come pensano, nel contesto di un’autodeterminazione rivendicata come diritto della persona, che le si possa rifiutare, esplicitamente e senza alcuna ambiguità.