Caro direttore,
non è possibile riflettere su quanto sta succedendo in Libia (e negli altri territori martoriati) senza un piccolo ragionamento sulla natura umana nella contemporaneità. Quella natura che può promulgare il bene ma anche traslarsi nel male più assoluto «invadendo e devastando – sono parole di Hannah Arendt – il mondo intero».
“Avvenire” ha, da anni, scelto di tenere accesa la luce sul dramma delle migrazioni. Alcuni possono non condividere questa lunga, motivata e documentata scelta editoriale accanto agli “ultimi” della Terra. Forse non la sentono prossima, prediligono altre “urgenze”. Il compito dei media è, quindi, quello di settare l’agenda attribuendo ai fatti la dignità di notizia. E per farlo è necessario comunicare in modo autentico ciò che sta realmente accadendo e sperare di creare empatia con il destinatario del contenuto. Fino a qualche anno fa il riscontro del lettore (o dello spettatore) era circoscritto al numero di copie acquistate o ai punti di share ottenuti. Oggi non è più così. Il legame con chi legge o guarda è profondamente cambiato.
Auditel, tiratura, diffusione sono strumenti e processi che perdono per strada il proprio peso specifico cadendo nelle spirali della disintermediazione che, se da un lato rimescola gli scenari mediali rendendoli sempre più orizzontali e accessibili, dall’altro rischia di compromettere la verità dei fatti raccontati. Capita così che un’imprecisione nella didascalia di una foto diventi una “fake news” usata per tentare di pregiudicare il lavoro scrupoloso dei cronisti nel raccontare l’atrocità delle torture subite da profughi e migranti in Libia. Mi riferisco certamente al recente caso che ha visto protagonista il suo giornale, ma anche a tutte le altre vicende centrifugate da un pubblico sempre più frammentato e privo di identità.
E di cui facciamo parte certamente noi comuni cittadini, frequentatori autorevoli o maldestri di reti sociali. Ma in cui rientrano, in una sorta di gioco di ruolo al massacro, anche i cosiddetti attori istituzionali (politici, altri media) che preferiscono spogliarsi delle vesti esclusive di opinion leader per combattere alla pari nell’arena dell’insulto e dell’odio. Viene così a crearsi quello che io definisco “effetto Dogville” prendendo spunto da un film di Lars Von Trier uscito nel 2003. La pellicola racconta la storia di Grace che, inseguita da alcuni gangster, trova rifugio nella cittadina di Dogville. Il regista decide di rappresentare la città come un grande spazio vuoto dove non ci sono pareti né altri segni identitari. Un luogo monodimensionale in cui tutto è riconoscibile tranne il cuore dei suoi abitanti, il loro dolore e la verità della loro esistenza. Dogville diventa così una delle metafore del tempo presente, di una società sempre più trasparente ma nello stesso tempo grossolana.
Una società in cui le sfumature lasciano il posto al bianco o al nero, a un’idea o al suo esatto contrario. E nella quale un migrante diventa o una minaccia da eliminare oppure il vessillo autoreferenziale in nome di una accoglienza senza criteri. È colpa dei media, potrà dire qualcuno. Ma sbaglierebbe. La colpa è soltanto nostra che abbiamo messo da parte quanto, con fatica, avevamo conquistato nel corso dei secoli. Intelligenza, selezione, discernimento, solidarietà, rispetto della dignità della persona sembrano categorie dimenticate, scalzate inesorabilmente da indignazione, chiusura, divisione, condanne, offese. Rieducarci alle prime diventa quindi la priorità ma, si sa, è un processo lungo e, per certi versi, utopico. Nel frattempo aggrappiamoci a quella categoria che può sembrare l’anticomunicazione per eccellenza, ma che, invece, diventa il riflesso della meraviglia dell’attesa di un mondo che non può ridursi a una comunità aperta a tutto e poi disattenta all’essenziale. Mi riferisco al silenzio che, come ha detto papa Francesco, resta l’unica soluzione «quando prevale questo modo di agire e di non vedere la verità».
Presidente Copercom