«Sapete quante volte penso a questo: alla stanchezza di tutti voi?». È Giovedì Santo, risuona nella basilica vaticana l’omelia della Messa del Crisma, a breve tempo dalla Pasqua di Risurrezione, nella celebrazione che vuole significare l’unità della Chiesa raccolta intorno al proprio vescovo, e Francesco parla della stanchezza. Perché? Singolare la scelta lo è, e in un’ottica paradossale persino creativa. Il Papa, rivolgendosi in particolare ai preti, dice loro che una vita che si va donando nel servizio, nella vicinanza alle persone «sempre stanca», e le sue parole lasciano vedere la stanchezza non come un crollo, come uno sbuffo che fa accasciare come un vestito vuoto a terra, ma come un momento di rinnovamento, una condizione felice, addirittura una ricarica.
Ne parla, Francesco, «come una grazia», «una cosa bella», «un arrendersi» che è «un abbandonarsi al Padre». Anzi è proprio, dice, «una chiave». È da come si vivono la stanchezza e il riposo che si misura anche «la fecondità sacerdotale». E insiste su quella che chiama «la stanchezza della gente», richiamando il Vangelo e la stanchezza di Cristo nel suo stare tra la folla che lo cerca e lo segue e non gli lascia neanche il tempo per mangiare. «È la stanchezza del sacerdote con l’odore delle pecore... ma con sorriso di papà che contempla i suoi figli... con la gioia di chi si riposa nel Signore». «È questa la stanchezza buona, sana... è la stanchezza piena di frutti e di gioia», afferma Francesco. E quindi, chiede il Papa, parlando ancora ai suoi sacerdoti: «So riposare da me stesso, dalla mia auto-esigenza, dal mio auto-compiacimento, dalla mia auto-referenzialità?». E «so riposarmi nelle esigenze – che sono soavi e leggere – di Cristo, dei suoi Santi a cui interessa solo la maggior gloria di Dio? So riposarmi nel loro compiacimento, nei loro interessi?».
C’è, infatti, anche una stanchezza che è forse la più pericolosa: quella di se stessi, dice il Papa. Perché è una stanchezza autoreferenziale: è la delusione di sé, ma non guardata in faccia, con la serena letizia di chi si scopre peccatore e bisognoso di perdono, perché così si chiede aiuto e si va avanti, invece «questa è il giocare con l’illusione di essere qualcos’altro». Questa stanchezza, dice, «mi piace chiamarla "civettare" con la mondanità spirituale», è una stanchezza cattiva. La parola dell’Apocalisse ci indica la causa di questa stanchezza: «Sei perseverante e hai molto sopportato per il mio nome, senza stancarti. Ho però da rimproverarti di avere abbandonato il tuo primo amore» (2,3-4). Solo l’amore dà riposo. Ciò che non si ama, stanca, e alla lunga stanca male.
Ma in uno dei passaggi di questa sottile analisi, in quella che Francesco definisce «la stanchezza dei nemici», si può intuire la chiave della tenuta del suo governo pastorale e spirituale della Chiesa e che illumina il momento ecclesiale che stiamo vivendo. «Il demonio e suoi seguaci non dormono – afferma il Papa – e dato che le loro orecchie non sopportano la Parola di Dio, lavorano instancabilmente per zittirla o confonderla». Non si tratta solo di fare il bene, bisogna allora «anche difendere il gregge e difendere sé stessi dal male». Ma davanti «allo spessore dell’iniquità, davanti allo scherno dei malvagi» Francesco oppone la grazia di aver imparato e di continuare a «imparare a neutralizzare il male». Non strappando la zizzania e non pretendendo (il corsivo è nostro) «di <+CORSIVOIDEE_BAND>difendere come superuomini ciò che solo il Signore deve difendere<+TONDOIDEE_BAND>».
Ed è su ciò che compie Cristo, nel divenire e nell’agire, che riposa la granitica certezza e il coraggio instancabile di Francesco. Sarebbe a dire, per chi ha orecchi e sa intendere, con san Paolo: «So in chi ho riposto la mia fede» (2 Tm 1,12). «Io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). E allora ecco che l’incalzante e forte riflessione del Papa nel Giovedì Santo ci accompagna nel giorno della Croce e sino alla soglia del Sabato Santo: siamo capaci di accogliere questo riposo, di abbracciarlo, di chiedergli la sua saggezza? Siamo stanchi, per fortuna.