Che in Italia i processi non siano «brevi» lo sanno tutti. Basta chiedere a uno qualsiasi dei milioni di cittadini alle prese con una giustizia troppo spesso sorda e impenetrabile, la cui arcaicità non sembra essere scalfita dagli annunci d’innovazione tecnologica od organizzativa che si succedono di anno in anno. Ancora più velocemente, di mese in mese, si rincorrono le condanne della Corte di Strasburgo per i diritti dell’uomo (organismo del Consiglio d’Europa) nei confronti del nostro Paese per l’«irragionevole durata» dei procedimenti giudiziari civili e penali. Perciò l’intenzione espressa dal governo di snellire i tempi processuali sarebbe da considerare semplicemente doverosa, oltre che ragionevole. Le polemiche, si sa, scaturiscono per lo più dalla norma transitoria (contenuta appunto nel testo sul cosiddetto «processo breve», approvato all’inizio dell’anno dal Senato e da allora fermo alla Camera) che prevede l’applicazione ai processi già in corso, tra i quali ve ne sono un paio che riguardano il presidente del Consiglio. Non è un particolare di poco conto, certo. Ma a voler prescindere da questo (del resto, una proposta simile fu presentata nel 2004 dai Democratici di sinistra) e a voler guardare soltanto alla potenziale efficacia della riforma in questione, c’è da chiedersi se sia sufficiente porre un limite di tempo per assicurare ai cittadini una giustizia che, oltre a essere (relativamente) «breve», sia anche «giusta». È questo, infatti, uno dei principali doveri dello Stato. La risposta non può che essere negativa, in assenza di altri interventi "strutturali", in grado di raddrizzare finalmente i tortuosi e accidentati sentieri che, oggi, il fascicolo di una causa o di un’indagine deve percorrere prima di tagliare il traguardo della sentenza. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano, qualche giorno fa, ha assicurato che troverà le risorse economiche necessarie per riorganizzare il lavoro di procure e tribunali per realizzare nei fatti il «processo breve» o «di ragionevole durata», come sarebbe più corretto dire. Speriamo. Ma servirebbe, in ogni caso, uno scatto ulteriore: bisognerebbe sgravare la bilancia della Giustizia (che, per definizione, dovrebbe essere certa, solida) dal peso della precarietà. Già, perché precari in toga sono i circa 3.500 magistrati onorari di tribunale che ogni giorno, insieme ai giudici di pace, contribuiscono a smaltire in larga parte l’enorme contenzioso di questo nostro Paese, bello, litigioso e cavilloso. Il 98 per cento dei processi penali di primo grado davanti ai giudici monocratici viene celebrato grazie a loro. Anche nelle sedi disagiate, dove le toghe ordinarie, tutelate dal Csm e dall’Anm, non vogliono andare. Per le toghe onorarie, invece, tutele zero, come spieghiamo all’interno del giornale. Lavorano a cottimo: una settantina di euro netti per ogni udienza tenuta. L’attività fuori dall’aula (lo studio dei fascicoli, la scrittura delle sentenze) non viene retribuita, così come i periodi di malattia, di maternità, di ferie. I contributi previdenziali li mette da parte solo chi se li può pagare. L’incarico è a tempo, salvo proroghe. Intanto della riforma organica della magistratura onoraria e dei giudici di pace, annunciata a novembre dello scorso anno e poi oggetto di aggiustamenti (sulla carta) nel corso di incontri tra Alfano, il sottosegretario Caliendo e le organizzazioni di categoria, si sono perse le tracce. Ma senza di loro sarebbe la paralisi definitiva, altro che processo breve... Una giustizia "a tempo determinato", ingiusta con una parte non marginale di coloro che sono chiamati ad amministrarla, fatica a essere credibile agli occhi del cittadino.