Nel 2007 ci fu l’Accordo della Mecca (Arabia Saudita). Nel 2008 la Dichiarazione di Sanaa ( Yemen). Nel 2009 i Colloqui del Cairo (Egitto). Nel 2010 gli Incontri di Damasco (Siria) e i Dibattiti di Doha (Qatar). Nel 2011 l’Accordo del Cairo. Nel 2012 l’Intesa di Doha. Nel 2013 e 2014 altre serie di incontri al Cairo e nel 2016 di nuovo a Doha. Questo solo per dire che la riconciliazione tra le due anime palestinesi, Hamas e al-Fatah, entrate in irrimediabile conflitto dopo le elezioni politiche del 2006 (vinte da Hamas) e ancor più dopo l’espulsione a mano armata di al-Fatah dalla Striscia di Gaza da parte di Hamas nel 2007, è stata tentata un’infinità di volte, con mediazioni di ogni genere e infinite trasferte in tutto il Medio Oriente.
Sarà dunque opportuno prendere con un grano di scetticismo l’annuncio, arrivato nei giorni scorsi, di una rinnovata disponibilità all’unità e alla pace di questi fratelli separati in casa che si affrontano tra loro quasi con la stessa intensità con cui contrastano il predominio di Israele. In apparenza è Hamas, che tuttora domina la Striscia di Gaza, a inchinarsi alle condizioni poste da al-Fatah, che non ha mai perso il controllo della Cisgiordania. E già questo dovrebbe farci venire qualche sospetto. La più notevole di tali condizioni è che si tengano elezioni generali uniche, chiamando cioè a un solo voto sia i palestinesi di Gaza sia quelli della Cisgiordania.
Pare chiaro che l’ottantaduenne Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese e dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, nonché manovratore delle trame interne di al-Fatah, conti di superare Hamas nel segreto delle urne, facendo magari leva sullo scontento dei quasi due milioni di abitanti della Striscia. Fin qui tutto normale. Tra il dire e il fare, però, c’è un mare di ambiguità. Intanto, come già detto, le elezioni del 2006, ovvero le ultime che si siano svolte, le vinse Hamas. Ed è sempre Hamas a guidare i sondaggi quando l’ipotesi di un voto viene sottoposta ai palestinesi. Solo l’ipotesi, però, perché in Palestina, di fatto, non si vota più. Il mandato presidenziale di Abu Mazen sarebbe scaduto nel 2009, ma lui è sempre lì.
Le elezioni politiche non si fanno appunto da una vita e l’anno scorso la Corte Suprema (organismo composto da nove giudici scelti dal Presidente, ovvero da Abu Mazen) ha sospeso sine die anche quelle locali. Tanto per non sbagliare, illustri esponenti di al-Fatah hanno già cominciato a dire che «per le elezioni comunque ci vorrà tempo» perché «bisogna ricostruire un clima di fiducia». Quindi di che cosa si parla, esattamente? Su che cosa è basato questo accordo? È possibile, infatti, che le condizioni più importanti di questo rinnovato processo di pacificazione tra palestinesi siano quelle non scritte e note solo ai leader dei due partiti e al presidente egiziano al-Sisi, vero artefice di questa svolta. Per esempio, che Hamas porti a casa l’uscita di scena di Abu Mazen, ormai sclerotizzato nella gestione del potere e totalmente sfiduciato dagli elettori che, come abbiamo visto, gli voterebbero volentieri contro se solo potessero votare. Il Presidente si è ormai ridotto ad amministrare le prebende che derivano dagli aiuti internazionali e per questo ha costruito un apparato di sicurezza che cresce di giorno in giorno e già conta molte migliaia di uomini.
Oggi gli uomini forti della Cisgiordania escono da quei reparti, come Akram Rajoub, nominato governatore di Nablus dopo essere stato alla guida della Forza preventiva di sicurezza, o ancora ne fanno parte come Majid Faraj, capo del Servizio generale di sicurezza, responsabile dei contatti con Israele e gli Usa, vero braccio destro di Abu Mazen e uno tra i possibili successori. Il vero accordo con Hamas passerà al setaccio delle loro ambizioni. E poi bisogna dire che la pace tra palestinesi non equivale alla pace in assoluto. Bisogna tenere in conto Israele, da sempre assolutamente ostile a qualunque ipotesi di accordo tra al-Fatah e Hamas. Benjamin Netanyahu l’ha detto più volte, e chiaramente: «Abu Mazen non può fare la pace con Hamas e con Israele. O fa la pace con Hamas o la fa con Israele». Sullo sfondo, la durissima ambizione di Hamas di veder sparire Israele.
Lo statuto del movimento è stato emendato, ma non rinnegato, nella primavera di quest’anno per inserire il consenso alla creazione di uno Stato palestinese nelle frontiere del 4 giugno 1967. Forse tardi, perché alla soluzione dei due Stati vicini e in pace ormai non sembra credere più nessuno degli attori politici e militari di vero peso. Insomma, il solito rompicapo. Questa, però, potrebbe non essere una pagina inutile. O per paura o per fiducia, un patto tra al-Fatah e Hamas potrebbe richiamare l’attenzione delle potenze (Abu Mazen, forse non a caso, è negli Usa) sulla questione palestinese, abbandonata per sfinimento in quell’angolo di Medio Oriente.
Ricordando a tutti che tale questione non riguarda solo gli alchimisti della politica, ma milioni di persone che vivono in condizioni spesso disumane, come ben raccontato dal Rapporto di Amnesty International 2016-17. A loro il dovere di darsi una classe politica degna di tale nome. A noi quello di non adagiarci sullo status quo scelto dal più forte e di non valutare i diritti dei popoli in base alla simpatia.