Le critiche in materia bioetica, obiettivamente ruvide, che Michela Marzano ha rivolto (su “La Repubblica” del 18 agosto) al segretario generale della Cei, il vescovo Galantino, accusandolo di ribadire «luoghi comuni», di ripetere «frasi fatte» e soprattutto di non aver capito una asserita «nuova linea» di Papa Bergoglio, sono tanto più sgradevoli, quanto più, a loro volta, ahimé, intessute di luoghi comuni e di frasi fatte.Lo scambio di embrioni avvenuto all’ospedale Pertini di Roma andrebbe ricondotto, secondo Marzano, alla «normale» categoria, sempre esistita, degli errori medici: perché, insiste la parlamentare e filosofa, monsignor Galantino vuol dare a questo evento una valenza paradigmatica che non possiede? Elementare la risposta: perché questo errore ha sconvolto la categoria “maternità”, creando una conflittualità tragica e irresolubile tra due donne (colei da cui provengono gli ovociti e colei che ha portato in grembo gli embrioni), ambedue umanamente legittimate a essere riconosciute (e non solo legalmente) come “madri”.Perché criticare la fecondazione eterologa, insiste Marzano, quando ormai l’omologa è pienamente accettata? Perché (indipendentemente dal fatto che la stessa fecondazione omologa è, sì, legalmente accettata, ma crea comunque gravissimi problemi bioetici) l’eterologa moltiplica le figure genitoriali, cosa che nell’omologa non avviene: è davvero necessario ricordare alla politica e studiosa una simile banalità, che ovviamente non sfugge a monsignor Galantino?E, ancora, perché continuare a ripetere che la maternità non dipende dal DNA, ma dalle empatie che nascono dai vincoli gestazionali e educativi? Che tali vincoli esistano e siano ben forti è indubbio, ma se i rapporti intergenerazionali si riducessero soltanto a essi, il desiderio di tanti (ma davvero tanti!) figli dell’eterologa di conoscere la verità sulle proprie origini resterebbe un enigma e non avrebbe alcuna giustificazione né psicologica, né morale.Ancora più stupefacente, nel suo radicarsi in un luogo comune oggi dilagante, la conclusione di Marzano, che finisce inaspettatamente con l’assumere nei confronti del vescovo messo nel mirino toni curiosamente consolatori: egli non dovrebbe preoccuparsi più di tanto delle nuove tecniche di procreazione assistita e del dilagare delle unioni omosessuali e delle famiglie arcobaleno! Contrariamente a quello che ritiene il segretario della Cei, da queste nuove pratiche sociali non deriverebbe alcuna aggressione nei confronti della famiglia “tradizionale”, perché tutte le famiglie vanno bene («basta che funzionino», direbbe Woody Allen): semplicemente noi tutti dovremmo confrontarci meglio con la realtà, che ci mostra come «ognuno cerca di convivere con le difficoltà dell’esistenza come può». Parole indubbiamente belle, queste di Marzano, che occultano però il cuore del problema: non si fronteggiano le difficoltà dell’esistenza manipolando la procreazione, scegliendo quali figli mettere al mondo e far vivere e quali no e sopprimere, creando distinzioni sconvolgenti come quelle tra madri genetiche, madri uterine e madri sociali e giungendo a trasformare l’umanissimo desiderio di avere un figlio in una irresistibile pretesa tecnologica. Ecco perché non centra il bersaglio l’esortazione che emerge dalle riflessioni conclusive di Michela Marzano, per cui la Chiesa dovrebbe finalmente aprire gli occhi, accettare la «famiglia variabile» e smetterla con la sua strenua difesa della «famiglia naturale».Non si tratta qui di difendere la natura (anche se Marzano, proprio perché è filosofa, sa meglio di tanti altri quanto sia ricca, complessa e non banale questa nozione), quanto di mettere un argine al narcisismo tecno-antropologico del mondo contemporaneo, che quanto più opera per legittimare i desideri, tanto più perde la percezione di quali e quante siano le vittime prodotte dall’ansia di realizzarli.