Ha forse mancato l’obiettivo principale, ossia la cattura della squadra di cricket dello Sri Lanka, ma certo il sanguinoso attentato di Lahore ha comunque ottenuto buona parte dei risultati che si riprometteva. Se il fine era uccidere, il commando terrorista è riuscito nell’intento, togliendo la vita ai pochi (troppo pochi) agenti di scorta e ad alcuni passanti, oltre a ferire diversi membri della nazionale cingalese di questo sport che, in Pakistan e nella regione, suscita passioni pari a quelle del calcio in Italia. Se erano mirate a riportare l’attenzione sul disastroso stato della sicurezza in Pakistan e sulla sua instabilità, le modalità spettacolari dell’attacco – e l’evidente alto livello di preparazione degli assalitori – hanno senz’altro raggiunto il loro scopo. Infine, se si volevano acuire le tensioni regionali – già estremamente tese dopo i recenti tragici fatti di Mumbai – i terroristi possono essere soddisfatti, viste le irate reazione dell’India. Il governo di New Delhi, che non aveva inviato la propria squadra in Pakistan proprio per motivi di sicurezza, ha subito denunciato l’impreparazione e la negligenza delle forze di sicurezza locali. Ha poi invitato perentoriamente Islamabad a combattere con più decisione il terrorismo di matrice islamica e a uscire dall’ambiguità, ricordando come il probabile movimento responsabile degli attacchi – Lashkare Taiba, lo stesso che ha seminato morte e terrore a Mumbai lo scorso novembre – abbia evidenti passati legami con i servizi segreti militari pachistani. Per il nuovo governo civile di Islamabad si tratta di un duro colpo, che conferma l’abisso di violenza e caos in cui il Paese rischia di precipitare definitivamente. Dopo l’uscita di scena del presidente ed ex capo militare Pervez Musharraf, la debole diarchia al potere, fatta dal vedovo di Benazir Bhutto, Asif Ali Zardari, a capo del Partito pachistano del popolo (Ppp), e dall’ex premier Nawaz Sharif, leader della Lega musulmana, dimostra di non riuscire a prendere le redini della nazione. Le province occidentali sono di fatto delle zone franche per i taleban, che combattono contro le forze Nato in Afghanistan; anzi, l’Alleanza atlantica fatica a garantire i flussi di convogli che partono dal territorio pachistano, e che sono spesso assaltati dalle milizie fondamentaliste. Proprio in considerazione del degenerare della situazione sul campo, aumentano gli attacchi aerei statunitensi lungo la frontiera afghana: un’evoluzione che diffonde l’anti-occidentalismo e delegittima le forze armate pachistane. Queste ultime, dall’uscita di Musharraf, mantengono un profilo poco visibile, ma è chiaro che la capacità del governo di imporre ad esse le proprie decisioni è per lo meno aleatoria. Il rischio di un ritorno dei militari al potere in caso di un’ulteriore peggioramento della situazione non è solo teorico. La crisi economica e finanziaria ha poi colpito duramente il Paese, danneggiando proprio i ceti sociali – la borghesia produttiva e commerciale, i gruppi legato all’amministrazione – su cui si appoggiano i due storici partiti rivali, Ppp e Lega musulmana, ora alleati. Non potendo ridurre significativamente il bilancio militare, si sono tagliati i fondi per i programmi sociali e di sviluppo. Ciò significa aumentare lo scontento e facilitare le violenze. A livello internazionale, soprattutto, si percepisce la crisi pachistana come inestricabilmente legata a quella afghana, tanto che nei circoli politici di Washington si parla gergalmente di AfgPak, come fosse un’unica entità. Questa perdita di credibilità è forse il dato che più di ogni altro preoccupa gli attori politici e militari di Islamabad, dato che li isola e li marginalizza; tendenza che finisce di fatto con il fare il gioco dell’India, una democrazia molto più stabile. Essa si propone come un attore globale che da decenni si deve confrontare con le provocazioni e le minacce di un vicino debole, inaffidabile ed estremista. Un’immagine che il Pakistan rifiuta con sdegno, ma da cui non riesce a liberarsi.