Le celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia sono state, anche per i circa 15.000 missionari italiani sparsi per il mondo, un momento forte per sentirci di «appartenere ad un popolo, di avere una storia e un destino comune, di non essere civilmente orfani», come ha detto il cardinale Bagnasco nell’omelia alla Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma dinnanzi alle massime autorità dello Stato.Montanelli ha definito i missionari «i più credibili rappresentanti dell’Italia in ogni paese del mondo» e nella ricorrenza dei 150 anni non possiamo dimenticare, proprio negli anni del Risorgimento italiano, la nascita del movimento missionario in Italia, simboleggiata dai quattro Istituti missionari italiani; il Pime (1850), i Comboniani (1867), i Saveriani (1898) e i missionari della Consolata (1901), con le loro congregazioni femminili, le riviste missionarie, le Pontificie opere missionarie, l’unione missionaria del Clero (1916) e, nell’ultimo dopoguerra, il volontariato cattolico internazionale, i sacerdoti
fidei donum e tutte le altre iniziative che portano Cristo ai popoli e rappresentano degnamente l’Italia unita nel mondo. Nella vita missionaria sul campo nessuno più ricorda la provenienza dal Nord o dal Sud Italia, tutti ci sentiamo italiani.Ho incontrato missionari e suore italiani nei luoghi in cui Cristo è ancora in viaggio, alle frontiere del Vangelo dove nasce la Chiesa e la carità cristiana è il miracolo quotidiano che commuove e converte i cuori: in Swaziland, Namibia, Costa dei Somali, Mali, Somalia, Eritrea, Ciad, Sudan, Papua Nuova Guinea, Laos e Cambogia, Borneo e Timor Est e tanti altri Paesi anche i più piccoli e poveri, nei quali nessun italiano va come turista, come Haiti e Bangladesh.I missionari sentono fortemente l’appartenenza alla patria, ne ascoltano la radio e pregano per il nostro popolo. Sulla scena del mondo globalizzato, essi rappresentano al meglio i valori profondi di solidarietà e gratuità così radicati nella nostra terra e nella nostra storia. Nelle celebrazioni di questa ricorrenza si sono giustamente ricordati i milioni di migranti italiani, come non ricordare i missionari che continuano ancor oggi a dare la vita per i popoli di cui sono diventati fratelli e sorelle, fino a essere ricordati come "padri della patria" in terre lontane?Ne ricordo due, ignorati in patria ma ricordati e ancora celebrati nei loro Paesi di adozione. Due esempi su migliaia di altri. Il vescovo di Bissau, il francescano veronese, monsignor Settimio Ferrazzetta (1924-1999), pregato come autentico "padre della patria" in Guinea Bissau. Durante la guerra civile del 1998 era ammalato di cuore in Italia, ma capiva che poteva ancora influire sui due protagonisti della guerra, il presidente Nino e il capo delle forze armate Ansumane Mané. Nonostante il parere contrario dei medici, il vescovo Settimio è tornato in Guinea Bissau ed è riuscito ad incontrare i due contendenti attraversando anche un fiume in secca, con la melma che gli arrivava al ginocchio, sostenuto da due giovanotti neri. Una grande fatica che il suo cuore non ha più sopportato ed è morto in Guinea dopo aver riportato la pace nel Paese. Ha dato davvero la vita per il popolo guineano. Il presidente Nino ha poi consegnato una medaglia d’oro al fratello del vescovo Settimio, nominato "padre della patria".Il secondo caso è quello di padre Clemente Vismara (1897-1988), che se Dio vuole sarà beatificato il giugno prossimo nel Duomo di Milano: 65 anni di missione in Birmania (Myanmar), missionario simbolico del riscatto dei tribali birmani, le etnie minoritarie sempre disprezzate e oppresse. La missione li ha elevati con la scuola e il Vangelo e tante altre opere sanitarie e di sviluppo. Clemente Vismara, eroe della prima guerra mondiale con tre medaglie al valore guadagnate sul campo, quando compiva i 60 anni in Myanmar è stato nominato dalla Conferenza episcopale 'patriarca della Birmania' e come tale è ancora venerato e pregato. Sarà anche il primo beato di quel bellissimo Paese ancora in attesa di essere liberato dalla dittatura.