venerdì 13 novembre 2009
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Dai frutti si risale alla bontà della semente, alla mano di chi l’ha sparsa nel tempo e nel luogo opportuni. I frutti di sviluppo e di pace nelle zone del mondo abbandonate senza scampo alla miseria e alla guerra rimandano agli uomini che hanno lasciato il proprio Paese per bonificare, dissodare, seminare. L’hanno fatto sapendo che esponevano a un rischio la propria stessa vita, e non pochi di loro l’hanno persa per quell’andare senza calcolo là dove l’uomo disperato invoca un aiuto efficace, subito. Hanno visto spuntare fiori nel deserto. E in giro per il mondo, così facendo, hanno parlato anche di noi che li abbiamo per connazionali, e che quando sappiamo andare oltre talune semplificazioni sbrigative spesso riconosciamo nelle loro opere qualcosa di nostro, di familiare.Che il Senato ieri – con uno dei rari gesti unanimi che riscattano la politica, persino in giorni, come questi, di polemiche vorticose e dure – abbia varato la «Giornata del ricordo dei caduti militari e civili» disponendone la celebrazione a ogni anniversario della strage di Nasiriyah (dunque il 12 novembre) è il segno di una memoria che non si vuole perdere, dell’omaggio di un Paese ai propri inviati nelle zone di guerra, armati o inermi. Ma è anche qualcosa di più. Le aree più disperate del pianeta hanno imparato a riconoscere negli italiani andati per pacificare e affrancare dal sottosviluppo lo stile di una presenza che sa guardare l’uomo prima della mappa dov’è tracciata la geografia che egli abita, spesso lacerata da conflitti senza requie, lordata da un odio indicibile. E non parliamo solo dei "battaglioni grigioverdi", che hanno lasciato dietro di sé anche nelle situazioni più controverse non il malcelato disprezzo riservato alla milizia straniera occupante ma la gratitudine per uno stile di rispetto e di comprensione per l’umano condiviso, che dietro la protezione delle armi – necessaria per transennare quel poco che si è bonificato – sa far spuntare scuole, ambulatori, pozzi, lavoro. Opere che restano. Frutti.Il «ricordo» per il quale – doverosamente – da oggi c’è anche il punto fermo di una Giornata nazionale deve però saper abbracciare tutti i testimoni capaci di generare quella prima, tenace fioritura di sviluppo, e non limitarsi alla pacificazione in armi. Il mondo ci conosce anche per altro, e da molto più tempo dei presìdi militari di pace. Abbiamo infatti rianimato i bassifondi della terra con una schiera di missionari, chiamati dallo stesso grido del povero senza domani, spinti dal Vangelo a non avere paura se non della propria paura di lasciare e di donare tutto. Che il Paese li sappia ricordare è un bisogno che nasce dal riconoscere laicamente anche loro – e per un titolo tutto speciale – seminatori di pace in nome e per conto di noi tutti. È indubbio: molto li distingue dai soldati, all’anagrafe della storia. Eppure c’è qualcosa di profondo che accomuna gli uni e gli altri nel saper essere italiani nel senso più intimamente cristiano. C’è una dedizione spontanea alla persona, un cuore allenato a riconoscere al volo la causa dei popoli martoriati, un codice di condotta al quale ripugna ogni alterigia sprezzante e che induce a scegliere senza esitare – tra lo spettatore e il samaritano – la parte di chi soccorre, costasse pure la vita.La contabilità di chi non è più tornato in Italia dice che le spedizioni militari sono costate 138 vittime, mentre ai missionari è stata chiesta la testimonianza del sangue in 107 casi riconosciuti (è il martirio subìto «in odio alla fede») e in centinaia di altri "incidenti" sulle aspre vie degli ultimi. C’è il comune codice di una generosità senza sconti dentro queste storie tanto diverse ma così "italiane". Nei loro frutti vediamo specchiato il meglio di noi.
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