Le ricchezze, come le povertà, sono molte. Alcune buone, e altre, rilevantissime, cattive. Le grandi culture lo sapevano bene; la nostra, perché non è grande, lo ha dimenticato. La natura plurale e ambivalente della ricchezza è iscritta nella sua stessa semantica. Ricchezza proviene da
rex (re), e quindi rimanda al potere, al disporre, attraverso il denaro e i beni, anche delle persone. Il possesso delle ricchezze è sempre stato, ed è, profondamente intrecciato con il possesso delle persone, e il confine oltre il quale la democrazia diventa plutocrazia (governo dei ricchi) è sempre poco tracciato, fragile, con pochissimi custodi e sentinelle che non siano sul libro paga dei plutocrati. Ma la ricchezza è anche
wealth, che in inglese rimanda al
weal,
well-being, cioè al benessere, alla prosperità, alla felicità individuale e collettiva. Adam Smith per il titolo del suo trattato di economia (
The Wealth of Nations, 1776), scelse
wealth (e non
riches), anche per dire che la ricchezza economica è qualcosa di più della sola somma dei beni materiali, o del nostro Pil. Gli italiani e molti economisti dei Paesi latini scelsero per questa seconda forma di ricchezza l’espressione «felicità pubblica», non sottovalutando mai il complesso passaggio dalla ricchezza alla felicità. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la tradizione della "pubblica felicità" divenne un fiume carsico, e nel mondo anglosassone l’antica idea di benessere sottesa a
wealth progressivamente si smarrì. E così, in tutto l’Occidente, lo spettro semantico della ricchezza si è molto impoverito, e noi con esso. Abbiamo costruito un capitalismo finanziario che ha generato molta "ricchezza" sbagliata, che non ha migliorato la nostra vita né quella del pianeta. Dobbiamo, con urgenza, ricominciare a distinguere le forme della ricchezza, a discernere tra gli "spiriti" del capitalismo, e riiniziare a dire, pubblicamente e con forza, che non tutte le cose che chiamiamo ricchezza sono buone. Non è buona la "ricchezza" che nasce dallo sfruttamento dei poveri e dei fragili, quella che proviene dal depredare le materie prime dell’Africa, quella dell’illegalità, della finanza-slot, della prostituzione, delle guerre, de traffico delle droghe, quella che nasce dal mancato rispetto dei lavoratori e della natura. Dobbiamo avere la forza etica di dire che questa pseudo-ricchezza non è buona, e dirlo senza se e senza ma. Non esistono buoni usi di questi soldi sbagliati, tantomeno il finanziamento del non-profit o delle strutture per bambini gravemente malati – questi bambini "giudicheranno" il nostro capitalismo. Da dove nasce, allora, la buona e vera ricchezza? Quale la sua origine e la sua natura? Per Smith, che queste domande aveva posto al centro della sua ricerca, la ricchezza nasce dal lavoro umano, e lo scrisse come prima riga della sua <+corsivo_bandiera>Wealth of Nations<+tondo_bandiera>: «Il lavoro annuale di ogni nazione è il fondo da cui essa trae tutte le cose necessarie e utili per la vita». Le ricchezze naturali, i mari, i monumenti e le opere d’arte non diventano ricchezza economica e civile se non c’è lavoro umano capace di mettere questi beni a reddito. Ma se guardiamo alle radici profonde della ricchezza, scopriamo qualcosa che potrebbe sorprenderci, perché ci potremmo accorgere che la sua natura più vera è il dono. La ricchezza buona che nasce dal lavoro dipende dai nostri talenti (il talento, ce lo dice la parabola, si riceve), cioè da doni di intelligenza, di creatività, doni etici, spirituali e relazionali. Dietro la nostra ricchezza ci sono eventi provvidenziali che non sono né merito solo nostro, né soltanto il frutto del nostro impegno (che comunque è sempre co-essenziale): esser nati in un determinato Paese, amati in una famiglia, l’aver potuto studiare in buone scuole, aver incontrato quell’insegnante e poi quelle persone giuste lungo il nostro cammino, ecc. Quanti potenziali Mozart e Levi Montalcini non sono fioriti solo perché nati o cresciuti altrove, o semplicemente perché non amati abbastanza? C’è qualcosa di questa tensione tra dono e ingiustizia nel mito di Pluto (il dio greco della ricchezza), che, accecato, distribuisce la ricchezza tra gli uomini senza poter guardare né alla loro giustizia né al merito. Come ritroviamo la consapevolezza della natura di dono della ricchezza alla radice dell’istituzione in Israele dell’anno giubilare, quando, ogni cinquant’anni, «ciascuno tornerà in possesso del suo» (
Levitico). E invece noi abbiamo dimenticato, e quindi espulso dell’orizzonte civile (e fiscale), che la proprietà dei beni e delle ricchezze è un rapporto, una faccenda sociale: «Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!» (J.J. Rousseau,
Il contratto sociale). Se cancelliamo questa natura più profonda e vera della ricchezza e la destinazione universale di tutti i beni, perdiamo anche i sentimenti di riconoscenza civile per le nostre ricchezze. È la gratuità-charis a fondare ogni ricchezza buona. Dovremmo allora guardare il mondo e dirci gli uni gli altri: «Io sono tu che mi fai ricco». E non smettere mai di ringraziarci a vicenda. Che cosa è la mia ricchezza se non il frutto di un insieme di relazioni, alcune con radici antichissime? Nel medioevo i forestieri, anche se ricchi, nelle processioni religiose (ordinate sulla base del censo) erano inseriti tra gli indigenti, perché mancanti di amici, perciò poveri della ricchezza più importante, quella delle relazioni. Senza questo riconoscimento-riconoscenza della natura relazionale e di dono della ricchezza, finiamo per considerare un’usurpazione ogni sua ridistribuzione, che percepiamo come gravi profanazioni di mani altrui che si infilano nelle nostre tasche. Anche gli imprenditori sanno che la loro (buona) ricchezza nasce anche, e soprattutto, dalla ricchezza dei territori, dalla ricchezza di talenti e di virtù dei lavoratori, dalla ricchezza morale di fornitori, banche, clienti, pubblica amministrazione, dalla ricchezza spirituale della loro gente (ecco perché l’evasione fiscale è un grave atto di ingiustizia e di non riconoscenza). E così, ogni tanto, alcuni imprenditori tornano a casa dopo aver delocalizzato, perché senza quelle ricchezze diverse non sono riusciti ad aumentare neanche la sola ricchezza finanziaria. Se la ricchezza è primariamente dono, allora il condividerla e usarla per il Bene comune non è un atto eroico, è un dovere di giustizia. La possiamo, e dobbiamo, condividere perché l’abbiamo in massima parte ricevuta. Quando una cultura perde questo profondo senso sociale e politico delle proprie ricchezze, si smarrisce, declina, tramonta. Oggi l’economia soffre e non genera la sua tipica buona ricchezza perché si sono impoverite le altre forme di ricchezza, e una parte rilevante di questo impoverimento l’ha prodotta la stessa economia finanziaria, che ha consumato risorse morali e spirituali senza preoccuparsi di rigenerarle. Ha agito come quell’apicultore che per far più soldi possibili con le sue api, si è concentrato unicamente sui suoi alveari, e ha trascurato e inquinato i territori circostanti. I prati e i frutteti si sono così impoveriti, e oggi le sue api, esauste, producono sempre meno miele, e di qualità sempre peggiore. Quest’apicultore, se vuol tornare a produrre buon miele, deve allargare gli orizzonti del suo problema, capire la vera causa della sua crisi, e poi iniziare a occuparsi dei prati e dei frutteti dei territori circostanti con la stessa cura con cui tratta le sue api e i suoi alveari. Ogni bene è anche un bene comune, perché se non è comune non è, veramente, un bene. Uscire dai cantieri per "addetti ai lavori" e tornare nei territori a prendersi cura dei prati e dei frutteti, dei beni comuni: è questa la sfida principale da raccogliere se vogliamo tornare a generare buona ricchezza, e quindi lavoro.