Arriva dalla Libia, a rendere più bella questa giornata, una notizia che fa onore all’Italia e alla sua tradizione più nobile. Tra il 9 e il 15 marzo un ponte aereo umanitario organizzato dalla Farnesina ha salvato dalle violenze e dagli stenti di Tripoli 110 profughi eritrei, trasportandoli al centro di accoglienza per richiedenti asilo di Crotone. Si tratta perlopiù di donne e bambini, oggi al sicuro e liberi di riprendere in mano il proprio futuro, come avevano sognato ricongiungendosi ai famigliari. Nel nostro Paese, che li aiuterà, o dove vorranno. Sono persone colpite duramente dalla vita, che tuttavia non hanno mai perso dignità e speranza. Nelle settimane scorse la Chiesa libica aveva denunciato a gran voce, attraverso il vicario apostolico Martinelli, la tragedia di 2.000 richiedenti asilo africani che avevano trovato rifugio dentro la cattedrale cattolica. Allarme rilanciato da alcune organizzazioni come il Cir, consiglio italiano per i rifugiati, e l’Agenzia Habeshia guidata dal sacerdote eritreo Mosè Zerai. Questo giornale ha documentato puntualmente il dramma che si stava compiendo, chiedendo l’intervento urgente dell’Italia e degli altri Stati dell’Ue. Gli eritrei infatti erano – e sono – ultimi tra gli ultimi a Tripoli per diverse ragioni. Sono un popolo in fuga da una terra oppressa per cercare libertà e salvezza in Europa. Ma l’accordo tra Roma e il regime del colonnello Gheddafi, che due anni fa aveva sigillato il Mediterraneo, li aveva di fatto congelati in uno Stato straniero, trasformandoli da potenziali rifugiati protetti dal diritto internazionale in migranti illegali esposti a ogni rischio. La Libia non ha infatti siglato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati e non concede protezione umanitaria. Su questa vicenda, che comprende l’oscuro caso dei respingimenti in mare dei potenziali richiedenti asilo nel 2009, il nostro Paese ha il dovere di riflettere seriamente. Perché le conseguenze sono state tragiche per persone che avevano diritto all’asilo. Agli eritrei dopo il 2009 non restavano infatti che due opzioni: fuggire verso altri Paesi o rimanere come schiavi. Dalla crudele vicenda delle persone rapite nel Sinai da spietati trafficanti di esseri umani abbiamo capito cosa è successo a chi è fuggito verso Israele. Chi è rimasto ha trovato ascolto e aiuto solo dalla Chiesa cattolica. Chi non è stato incarcerato, ha provato a sopravvivere con lavori saltuari. Allo scoppio del conflitto gli eritrei si sono trovati tra due fuochi, aggrediti dai ribelli che li scambiavano per mercenari e dalle truppe governative che volevano arruolarli a forza. Poi il nostro governo – dal sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi all’Unità di crisi della Farnesina, dalla Direzione generale degli italiani all’estero al Viminale fino all’Ambasciata a Tripoli – ha accolto l’appello e ha salvato i più deboli. È una vittoria di tutti, lo diciamo con un pizzico d’orgoglio, della Chiesa, della società civile, delle nostre istituzioni. Ciascuno ha fatto la sua parte con determinazione. Avevamo due debiti con questo popolo. Uno di accoglienza con quelli respinti in mare alcuni mesi fa, l’altro – ben più antico – di gratitudine con gli ascari morti combattendo in Libia ai tempi bui del colonialismo. Certo, questa azione umanitaria non basta a saldarli. Ma ora possiamo autorevolmente invitare l’Europa a intervenire, a non rimanere indifferente verso i rifugiati. La nostra non deve restare infatti un’azione isolata, quasi 2.000 eritrei sono ancora bloccati a Tripoli, non dimentichiamolo, e hanno gli stessi diritti dei 110 che abbiamo salvato. Lo sappiamo, e questa ne è una riprova: l’Italia, quando è davvero se stessa, è un grande Paese.