Prosegue il dibattito nato in seguito alla prolusione che Luca Diotallevi, docente di Sociologia all’Università di Roma Tre, ha tenuto all’inaugurazione della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna su «La fine del cristianesimo, religione degli italiani», e pubblicata su Avvenire lo scorso 23 ottobre
Che sia finita la cristianità e il cristianesimo nella sua forma cattolica non costituisca, ormai da tempo, l’orizzonte del nostro sentire e vivere la società è perfino scontato. Non abbiamo bisogno di analisi sociologiche per stabilirlo. Piuttosto avremmo necessità di sapere in che cosa credono gli italiani e, direi, gli occidentali europei. Non è una domanda semplice per il fatto che fra credenti e non-credenti qui ed ora si situano quelli che da tempo vado indicando come “diversamente credenti”. E ho sentore che si tratti di una maggioranza silenziosa, ma non irrilevante per il teologo e per la comunità credente.
“Diversamente” è il termine-avverbio decisivo. Da cosa? In primo luogo, direi da un cattolicesimo convenzionale, che per decenni, se non secoli, ha costituito l’essenza dell’esperienza religiosa dei nostri contemporanei e connazionali. Essere religiosi per loro significava essere cristiani ed essere credenti essere cattolico-romani. E ora? Dove si situano queste persone rispetto al credere? Non possono non credere in nulla o nel nulla, ma è vero? Il nulla, con le tenebre che lo avvolgono, terrorizza i più, mentre affascina la minoranza intellettuale. Forse ci dobbiamo interrogare a partire da questa questione fondamentale e tracce di risposta le possiamo rinvenire in un testo dimenticato di Franz Rosenzweig onde poter rispondere a tale interrogativo. Si tratta Dell’intelletto comune sano e malato (Reverdito, Trento 1987), ultimo saggio da lui scritto prima della malattia che lo ha devastato. Per il pensatore ebraico, convertito alla sua stessa radice, si trattava all’epoca di «liberare la filosofia e la teologia dal pericolo dell’astrazione ed altresì di spronare il pensiero e la fede alla reciproca critica e quindi alla cooperazione» (dalla “Introduzione” di Nahum Norbert Glatzer, p. 11).
E allora la domanda: in che cosa crediamo diversamente da chi attinge ai simboli della dogmatica cattolica e non? Mi sembra che la traccia da cui partire stia in questa semplice, ma non banale, affermazione secondo cui « Il mondo è qualcosa – vale a dire esso non è nulla, esso però non è nemmeno tutto, ma c’è ancora dell’altro. E poiché questo sapere dev’essere solo il primo inizio, allora questo altro, sia io che Dio, deve essere di necessità in ogni istante raggiungibile da parte del mondo, anzi deve raggiungerlo. Non dev’essere affatto possibile parlare di mondo, senza già nell’istante immediatamente successivo parlare di Dio». E qui siamo disorientati. Ma di quale Dio si tratta? In cosa credono i diversamente credenti se non in un divino impersonale che sovrasta, senza superarla del tutto, l’esistenza quotidiana delle persone?
«L’uomo religioso moderno – scriveva Frédéric Lenoir – è un nomade più che un sedentario. Segue diverse piste, percorre cammini, rimane aperto agli incontri della vita, senza mai poter affermare di essersi stabilito da qualche parte. Non costruisce, più che altro si accampa. […] Come possiamo capire quest’abbondanza di credenze e di pratiche così diverse che si esprimono sotto i nostri occhi, questa religiosità fluttuante – à la carte – che si sviluppa nel cuore o a margine delle tradizioni religiose?» (F. Lenoir, Le metamorfosi di Dio. La nuova spiritualità occidentale, Garzanti, Milano 2005, p. 7). La possibilità per il messaggio cristiano di incrociare l’uomo nomade del nostro tempo risiede nella capacità di mettersi in cammino e di indicare la stella capace di orientarne il vagare errante, non senza tener conto dei rischi connessi all’adozione acritica dell’immagine di Dio che alberga nella mente e nel cuore di molti nostri contemporanei.
In questo senso si tratta di prendere sul serio le tre metamorfosi descritte da Lenoir. La prima di esse riguarda la parabola da una immagine del Dio persona a quella di un divino impersonale, non ben definibile ed identificabile. Non sempre ci si rende conto, infatti che tale metamorfosi teologica implica piuttosto un regresso che un vero e proprio progresso nella nozione di Dio e del divino, con l’aggravante che la spersonalizzazione di Dio comporta inevitabilmente e drammaticamente la spersonalizzazione dell’uomo e quindi la sua reificazione. La rivelazione di fronte a questa istanza non può che dialetticamente, o meglio profeticamente, denunciarne gli esiti catastrofici e disumanizzanti (cf Lenoir, pp. 272-281). Una conferma di tale metamorfosi che attinge alle religioni orientali la rinveniamo nelle conclusioni cui giunge il fisico (da altri ritenuto metafisico) Carlo Rovelli: « Allora l’unica realtà è la vacuità? È questa la realtà ultima? No, scrive Nagarjuna nel capitolo più vertiginoso del suo libro, ogni prospettiva esiste solo in dipendenza da altro, non è mai realtà ultima, e questo vale anche per la sua prospettiva, anche la vacuità è vuota di essenza, è convenzionale. Nessuna metafisica sopravvive. La realtà è vuota» (C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017, edizione digitale 2020, p. 81s).
Una seconda metamorfosi viene descritta come passaggio da una modalità estrinsecista di Dio a una percezione del divino capace di abitare nel sé. Si tratta dell’istanza dell’interiorità che una teologia attenta non può facilmente eludere, ma che non può non cercare di integrarsi con quella alterità, sopra richiamata, a salvaguardia della trascendenza del Dio d’Israele e di Gesù Cristo, che non si lascia immanentizzare, col rischio dell’antropomorfizzarsi. Sul piano più propriamente antropologico, si tratta di non rassegnarsi al solipsismo, che stranamente quella che denominiamo società della comunicazione spesso induce.
Una terza ed ultima istanza riguarda la configurazione del divino rispetto al mondo, per cui si passerebbe dalla immagine di un Dio estraneo rispetto al cosmo a quella dell’anima mundi, con l’ulteriore processo tendente a determinare una sorta di “femminilizzazione del divino”. Resta ancora molto lavoro sia teologico che pastorale da compiere perché l’uomo di oggi riesca a percepire il volto materno di Dio, nella comunità credente e in Maria, alla quale la devozione popolare è sempre costantemente attenta e della quale è giustamente gelosa. La domanda che rimane è se, al di là dei riferimenti generici al femminile e al suo genio, non si debba conferire spessore istituzionale ed ecclesiale alle donne in carne ed ossa che abitano le nostre comunità. Ma c’è di più. La riflessione sullo Spirito Santo, insieme legame fra il Padre e il Figlio e Persona egli stesso, in una prospettiva orientale, ma suggestiva e ispirativa, può essere pensata in rapporto alla divina Sofia, che suggerisce l’assunzione del femminile in Dio, senza indulgere alla suggestione quaternaria presente nella filosofia erotica di Franz von Baader.
Non abbiamo alcun bisogno di analisi sociologiche per rilevare queste tendenze, purtroppo non solo emergenti, ma dilaganti, che interpellano, a mio parere teologicamente, sia le “messe sbiadite” che il “gregge smarrito”, in quanto ci troviamo dinanzi al nucleo della ricerca di senso che comunque alberga nei cuori e nelle menti dei nostri contemporanei. A fronte di tale substrato credente di carattere impersonale la teologia e l’evangelizzazione dovrebbero porsi nell’atteggiamento di chi intercetta la necessità, ovvero il bisogno-desiderio, di porsi da parte di tutte/i e di ciascuno di fronte a un t(T)u, umano e divino insieme, che l’Evangelo è in grado di indicare e proporre come unica possibilità salvifica a fronte dell’ineluttabile fatale necessità di chi pensa che il suo destino sia nell’immergersi-naufragare dolce nel mare del nulla. Il problema è che non ne siamo capaci sia nella catechesi che in generale nell’agire ecclesiale. E la risposta non potrà venire certo dai sociologi, ma dovrà essere teologica e credente, ovvero fiduciale: «Camminare in semplicità con il tuo Dio: qui non si richiede nulla più della completa presenza della fiducia. Ma fiducia è una parola grande. È il seme da cui crescono fede, speranza e amore ed il frutto che da essi matura. È la cosa più semplice di tutte e proprio per questo la più difficile. Ad ogni istante essa osa dire “è vero!” alla verità.
Camminare in semplicità con il tuo Dio. Le parole stanno scritte sulla porta, sulla porta che dal misterioso-miracoloso splendore del santuario di Dio, dove nessun uomo può restare a vivere, conduce verso l’esterno. Ma su che cosa si aprono allora i battenti di questa porta? Non lo sai? Sulla vita”» (Ancora F. Rosenzweig nel finale della sua opera magica La stella della redenzione). Solo se il nostro teologare e agire saranno capaci di ispirare tale fiducia probabilmente avranno qualche possibilità di oltrepassare l’attuale esodo dall’appartenenza credente dei nostri contemporanei.