Le flebili voci che si sono alzate dalla comunità internazionale per condannare la sanguinosa repressione della primavera siriana, in atto da tredici settimane, hanno registrato un insolito e improvviso acuto. A emetterlo è stato il premier turco Erdogan che ha parlato di «atrocità inumane» compiute dal regime di Bashar Assad, il dittatore di Damasco fino a ieri considerato un amico dal governo di Ankara. Il repentino cambio di giudizio deriva dal fatto che i disordini in Siria stanno spingendo in Turchia migliaia di profughi, facendo temere un’emergenza umanitaria come quella che si realizzò nel 1991, alla fine della prima guerra contro l’Iraq. La crisi siriana s’aggrava e assume inevitabilmente una dimensione internazionale. Il pugno di ferro di Assad non è riuscito a schiacciare le proteste popolari che si stanno diffondendo in tutto il Paese, nonostante l’altissimo tributo di sangue pagato dai rivoltosi. Il regime di Damasco non ha esitato a schierare i carri armati e a far alzare gli elicotteri da combattimento contro la popolazione. Le testimonianze dei fuggiaschi sono racconti del-l’orrore, denunciano massacri e stermini, distruzioni di case e di poderi, spietate esecuzioni a sangue freddo dei soldati che si rifiutano di sparare sui loro connazionali. Negli ultimi giorni la protesta, quasi sempre pacifica, si è trasformata in ribellione armata. La situazione resta molto confusa e le notizie sono difficilmente verificabili, data l’assenza di giornalisti stranieri e di operatori umanitari nella Siria chiusa ermeticamente da una dittatura araba di tipo sovietico. Ed anche i contorni della protesta restano tutti da definire. Ad alimentare la ribellione ci sono indubbiamente pacifici cittadini, intellettuali e gruppi d’opposizione nati sul web, le cui richieste sono libertà e democrazia. A dare mano forte c’è poi la gran massa dei sunniti, maggioranza senza potere. Infine ci sono i movimenti integralisti come i Fratelli Musulmani e gli infiltrati dell’Arabia Saudita che mirano a sostituire la minoranza alawita al potere con un’altra dittatura, non più laica bensì islamista. Restano in disparte le comunità dei drusi e dei cristiani (il 10 % della popolazione) che paventano per la Siria la stessa sorte subìta dal-l’Iraq, dove la caduta di Saddam spalancò le porte all’inferno della guerra civile e delle persecuzioni nei confronti delle minoranze etniche e religiose. Resta il fatto che Assad, a dispetto della sua bella presenza e della sua educazione londinese, si sta rivelando un dittatore non meno sanguinario di Gheddafi contro cui la Nato ha scatenato una guerra che voleva essere 'umanitaria', a difesa della popolazione civile, ed è invece diventata una serie di bombardamenti allo scopo di eliminare il tiranno, anche a prezzo di vittime innocenti. Il groviglio siriano imbarazza l’Occidente, costretto ad ammettere di usare due pesi e due misure. Ma tra la decisione di bombardare un Paese e quella di non fare assolutamente nulla c’è spazio per soluzioni più sagge. Gli inviti rivolti ad Assad perché fermi la repressione potranno avere qualche efficacia solo se accompagnati da dure sanzioni che però l’Onu non è in grado di varare, data l’opposizione di Russia e Cina. Al momento quel che può davvero impensierire il dittatore siriano è la minaccia, lanciata dalla Turchia, di un intervento armato per creare una zona cuscinetto ai confini tra i due Paesi ed evitare così l’emergenza profughi. C’è da sperare che la minaccia funzioni come deterrente. Se invece dovesse realizzarsi, aprirebbe scenari del tutto nuovi e destabilizzanti per l’intera regione mediorientale. È su questo sottile crinale che si gioca il futuro della primavera siriana.