È la volta buona? La Ue sta per dotarsi di una politica comune sull’immigrazione? Abbiamo imparato la lezione e capito che, senza gestire un fenomeno epocale e ineluttabile come questo, semplicemente l’Europa muore? A giudicare dagli impegni assunti da Ursula von der Leyen, anzitutto col discorso sullo Stato dell’Unione, sembra di sì. Si coglie uno spiraglio di opportunità. Al Parlamento Europeo, nell’appuntamento più solenne dell’anno, le sue parole hanno avuto il sapore di una cesura storica: «Abolire il Regolamento di Dublino», ha detto.
Un messaggio perentorio, chiarissimo, rilanciato dai media in tutti gli angoli del continente, da Berlino a Lesbo, da Lampedusa ad Amsterdam. Difficile, dopo questo spartiacque, immaginare un esito non all’altezza delle aspettative, men che meno un fallimento; l’Europa non può permetterselo. La politica migratoria, però, è questione talmente complessa e divisiva da rendere immediatamente necessario, prima ancora che la Commissione presenti il suo piano, fissare alcuni punti cardine. Primo, si tratta di delimitare bene il perimetro d’azione: non tutto ciò che alimenta il dibattito rientra nell’alveo della politica migratoria. Penso, ad esempio, al delicato aspetto del salvataggio in mare, che, appunto, non attiene formalmente alla questione. Bene ha fatto von der Leyen a dire esplicitamente che salvare vite in mare non è un optional. Salvare vite è un obbligo derivante dal diritto internazionale e, soprattutto, dai valori universali non negoziabili dell’Unione e degli Stati membri. Nessuna discrezionalità è ammessa. Secondo punto irrinunciabile, i meccanismi decisionali previsti dalla proposta della Commissione.
Molti dei fallimenti europei degli ultimi anni sono riconducibili all’abuso di unanimità e veti. Una prassi che deve finire: è fondamentale che le decisioni siano prese rapidamente e a maggioranza. Inoltre, deve esserci un’autorità centrale – che non può che essere la Commissione – a guidare i processi e gestirne l’esecuzione. Va spezzata la logica dei rapporti orizzontali tra governi, che ogni volta dà vita a vergognose aste al ribasso sulla ripartizione dell’accoglienza: nave per nave, scialuppa per scialuppa. Una condotta che ha caratterizzato tutte le emergenze migratorie di questi anni, inficiandone sistematicamente la risoluzione. Terzo principio cardine, la geografia dei flussi. Vista la loro provenienza e destinazione, esiste un’asimmetria di fondo nell’impatto che i fenomeni migratori hanno sui diversi Stati europei: alcuni – Germania, Italia e Grecia in testa – sono molto più esposti di altri in quanto principali Paesi di ingresso o di destinazione finale.
Non si può non tenerne conto. È esattamente questo, infatti, il problema centrale oggi: il Regolamento di Dublino non riequilibra l’asimmetria, ma la esaspera, in particolare scaricando sul Paese di primo ingresso tutto il peso dell’accoglienza e delle domande di asilo. L’abolizione di Dublino, ma soprattutto di questa norma, è condizione imprescindibile. Un’equa condivisione tra Stati membri, con personale europeo che affianchi quello nazionale, è essenziale fin da subito. Quarto e ultimo punto, il nodo della distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo. So bene quanto abrasiva sia la materia e quanto labile sia la definizione del confine tra le due categorie. Tuttavia, sono convinto che esista una via maestra per rendere efficace e sostenibile la scelta che si farà. Una strada che si percorre solo attraverso due passi, compiuti insieme. Da una parte, una rigorosa distinzione dei due profili con una chiara indicazione dei Paesi di origine e delle condizioni che consentono l’ottenimento dello status di rifugiato. Dall’altra, l’apertura di vie legali per l’immigrazione economica, regolate e ben funzionanti. I due aspetti servono necessariamente insieme; da soli non sono sufficienti.
Motivo per cui, tra l’altro, oggi tutti i migranti in arrivo tendono ad autodefinirsi come richiedenti asilo, salvo poi rimanere comunque sul territorio europeo o come irregolari o come condonati. Naturalmente il dossier è ben più complesso e certo non consta solo di questi punti. Tanti sono i nodi da sciogliere – a partire dall’abolizione dei cosiddetti Decreti Sicurezza qui da noi in Italia – ma senza affrontare le quattro questioni centrali appena descritte il piano europeo non potrà funzionare. L’importante è non ripetere errori passati e soprattutto avere ben chiaro che i princìpi alla base del nostro 'essere Europa' non sono flessibili, né sindacabili. Sono, semplicemente, valori non negoziabili.