«Perché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e perché io non posso farlo?». Sembrano domande ingenue, ma lo sono solo in apparenza. È con domande di questo tipo che è stata attivata in Italia, ormai da mesi e mesi, un’aspra battaglia politica, giuridica e morale. Si osservi: questa battaglia è abbastanza diversa da quelle che favorirono l’introduzione di leggi eutanasiche, in Olanda prima, in Belgio e in Lussemburgo poi. Nell’uno come negli altri casi a fondamento di tali leggi stava un antichissimo argomento: è giusto e umano dare una morte pietosa a pazienti terminali, colpiti da malattie tali da attivare terribili sofferenze. Se questa è la volontà del paziente, è giusto aiutarlo a morire serenamente. Che si trattasse di un sofisma, lo dimostra la stessa esperienza olandese, che progressivamente ha allargato l’ambito di applicazione della normativa ai pazienti psichiatrici prima e ai minori poi, a soggetti, cioè, palesemente incapaci di formulare un valido consenso. Ma, in linea di principio, resta il fatto che nel Benelux per accedere all’eutanasia legalizzata non basta che essa sia richiesta dal malato: è necessario che questa pratica venga obiettivamente riconosciuta come 'pietosa', come l’unico modo di fronteggiare situazioni atroci. E qui si pone il primo paradosso: se ci si attesta su questa linea, i fautori dell’eutanasia dovrebbero, per onestà intellettuale, riconoscere che ormai «l’eutanasia è sorpassata». Questo era il famoso titolo di un articolo, apparso qualche anno fa su
Le Monde, in cui si denunciava in modo freddamente impeccabile come i progressi straordinari della medicina palliativa avessero svuotato di senso il presupposto stesso delle leggi a favore dell’eutanasia: infatti, per fortuna di tutti noi, non esistono più situazioni di dolori terminali che la medicina non sia in grado di rendere sopportabili. Il contesto del dibattito è però ormai definitivamente mutato. I fautori dell’eutanasia non fanno più appello alla pietà, ma alla libertà. Siamo gli unici padroni della nostra vita e dobbiamo rivendicare il pieno diritto di disporre di essa. «Perché vuoi impedirmi di decidere per la mia vita? Tu sei libero di scegliere quello che vuoi, e perché io non posso farlo?». Ecco il sofisma. Come smascherarlo? Un tempo i giuristi avrebbero pazientemente spiegato che esistono diritti e beni personalissimi e nello stesso tempo «indisponibili», quale appunto la vita, ma non la vita soltanto: non posso disporre della mia libertà (vendendo, ad esempio, il mio voto) o dei miei ruoli familiari (non posso disporre dei miei «diritti coniugali» e della mia potestà sui figli, trasferendola ad altri soggetti pur se consenzienti). Non posso disporre del mio corpo, vendendo il sangue o i miei organi al miglior offerente. Non posso disporre della mia cittadinanza, né posso usare la mia libertà per rinunciare a nessuno dei miei diritti umani fondamentali. Agli occhi dei giuristi di un tempo, tutto questo sembrava evidente. Oggi non più. Poter disporre insindacabilmente di sé: questo è lo slogan che emerge ormai con incredibile monotonia in tutti i dibattiti sull’eutanasia. È incredibile dover prendere atto di come anche tanti giuristi si siano impadroniti di tale slogan, nella più beata inconsapevolezza di cosa comporti accettarlo, e quasi esso possedesse una forza irresistibile. Lo slogan nasconde dunque un sofisma, infinite volte denunciato e infine volte riproposto. È legittimo, anzi prezioso, ogni esercizio di libertà che confermi o potenzi la mia identità. È invece illegittimo e vituperabile ogni esercizio di libertà che porti alla negazione o all’umiliazione, in tutto o in parte, della mia identità. Vendere il voto è biasimevole, non perché possa fruttarmi un indebito lucro, ma perché vendendo il voto dimostro di non dare credito ai miei diritti di cittadino libero, consapevole e responsabile. Se dispongo lucidamente, razionalmente, freddamente della mia vita, quindi non per amore dell’altro (ad esempio, per salvare la vita di una persona che si trova in mortale pericolo), ma per chiusura egocentrica nella mia soggettività, dimostro la mia povertà umana ed esistenziale: in questo senso ogni suicidio (non indotto da malattia mentale) è prova di un tragico fallimento relazionale. Si dirà: ma non è questo il caso! Qui si parla di autodeterminazione si parla di persone che soffrono e che per questo chiedono di morire. Ma allora, lasciamo cadere i sofismi: chi soffre va aiutato a sconfiggere la sua sofferenza, la sua disperazione, il senso di abbandono che lo pervade; va aiutato a vivere e non a morire. Nessuno, che non si trovi in stato di abbandono, sceglie liberamente la morte. L’eutanasia, l’uccisione pietosa, è sorpassata.