Con il passare degli anni la giornata nazionale degli stati vegetativi (che si celebra oggi) rischia di passare sottotono e di non accendere nessun riflettore sul persistente anonimato delle persone che vivono condizioni di veglia aresponsiva e stati di minima coscienza. Eppure, le correnti ideologiche incalzanti dovrebbero interrogarci con maggiore pressione sulle questioni etiche, sociali e sanitarie che attraversano trasversalmente questa giornata. Si dovrebbe anche aggiungere una riflessione di base sulla opportunità della cura di chi vive in condizioni cliniche permanenti (e non terminali), privi di capacità interattive e relazionali.
Sono i primi candidati all’eutanasia, corpi sottratti alla comunicazione, alla consapevolezza di sé. Si tratta, per alcuni, di vite assenti facilmente declinate come vite inutili, penalizzate da condizioni di sofferenza e che generano percorsi impegnativi ai familiari che partecipano al loro percorso clinico.
Le politiche eutanasiche cavalcano slogan di facile presa sull’opinione pubblica e con le opportune ambiguità di linguaggio, ma soprattutto calcano la mano sulle gravi condizioni croniche delle persone in stato vegetativo.
Il timore di fondo è che il linguaggio pro-eutanasia sottilmente penetri e diventi sempre più convincente.
La Chiesa è a servizio dell’uomo nella sua dignità di persona, e per ciò solo amata e desiderata. Le compromesse condizioni cliniche, l’incapacità di interazione significativa con l’ambiente, la non intenzionalità dei movimenti oculari, l’assenza di risposte agli stimoli esterni non compromettono l’essere persona, e a maggior ragione l’essere persona amata e da amare. Al contrario la cura dovrebbe farsi più intensa e più accurata. La Chiesa inoltre è a servizio dell’uomo non come individuo a sé, ma dentro una comunione di persone. Ogni individuo, quindi, è persona all’interno di una comunità solidale, dove la prossimità e la Cultura della Cura dettano il passo della relazione con gli altri.
Le persone in stato vegetativo o in stato di minima coscienza sono un valore della comunità, il tesoro della Chiesa, direbbe oggi san Lorenzo diacono e martire. Sono essi che ci salvano dalla disumanizzazione della nostra comunità. Sono generativi di misericordia, vettori di solidarietà, di affetto fraterno e di vera compassione.
Si rende necessario un sano risveglio del laicato cattolico, che affermi le solide convinzioni etiche e antropologiche che spingono alla cura dei fragili, vere cattedre di umanità.
Le persone in stato di minima coscienza non sono morte, non sono vite inutili. Sarebbe un grave errore ridurre la persona alla sua capacità produttiva o alle sue performace comunicative. La persona è molto di più del suo limite, è molto di più della sua disabilità, per quanto gravissima.
La relazione con persone in stato vegetativo è possibile, ma attraverso canali sensoriali ed empatici che spesso esulano dalle nostre abitudini. Le persone con condizioni cliniche così gravi e croniche esortano a conoscere il mistero che ogni persona si porta dentro. Sarebbe un grave errore rinunciare alla meravigliosa scoperta dell’altro, che sempre è un ignoto da scoprire, specie in condizioni di fragilità persistente.
Il mondo cattolico non si lasci convincere da ideologie mortifere e individualistiche che negherebbero il senso della comunità. Piuttosto è chiamato ad affermare la necessaria comunione di persone dove ci sia ancora posto «per la vedova, l’orfano e lo zoppo». Una comunione di umanità e di originalità, nella prassi della cura reciproca e dell’amore vicendevole.