L'esordio di un Obama conciliante e di un Gheddafi ormai integrato nella rete mondiale degli affari in una platea di 192 leader mondiali. Il salto di qualità della Cina, con Hu Jintao primo presidente ad arrivare a New York da quando il suo Paese (1971) fece rientro nell’Onu. Il presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, con un messaggio di "pace e di amicizia". Sarkozy, Merkel e Brown ispirati sul clima in vista della Conferenza di Copenaghen. L’America Latina pronta a dire la sua, trainata dal Brasile del presidente Lula. C’erano tutte le condizioni, insomma, perché la sessantaquattresima Assemblea Generale si trasformasse in una festa delle Nazioni Unite e nella conferma che il clima politico mondiale ha sterzato verso il dialogo e la trattativa. Ma è possibile, al contrario, che i lustrini coprano a stento una crisi che è nei fatti prima ancora che nelle intenzioni dei protagonisti. All’epoca di George W. Bush le parti in commedia erano ben definite. Il presidente americano nemmeno fingeva di amare l’Onu (al punto da nominarvi, per poco, un ambasciatore, John Bolton, che ne aveva vagheggiato un drastico ridimensionamento), la quale ricambiava con una freddezza che faceva dire a Bush, alla vigilia di ogni Assemblea, «vado al museo delle cere». Un disamore così palese, però, da costringere i contendenti a una certa cura formale nei rapporti, mai pregiudizialmente ostili, mai davvero interrotti. In fondo, l’uno aveva bisogno dell’altro. E adesso? In superficie, tutto luccica come l’oro. Basta grattare un poco, però, per scoprire che il metallo ha un’altra lega. Obama sarà pure incline al dialogo, ma certo non ha paura di decidere. Sulla crisi finanziaria, partita dagli Usa per colpire il mondo, è andato avanti da solo. Per l’Afghanistan, ha sentito (invano) gli alleati e poi è partito all’offensiva. A Polonia e Repubblica Ceca ha fatto scoprire sui giornali che lo scudo stellare non si faceva più. Con Israele e palestinesi tratta in privato e, da ultimo, ha inaugurato un braccio di ferro commerciale con la Cina. Gli altri inseguono, l’Onu assiste. Tutt’intorno, poi, si moltiplicano i "luoghi" in cui si fa la politica. Già il 25 e 25 settembre, per esempio, si svolgerà a Pittsburgh (Pennsylvania) il G20. E poi i G8 (vedi L’Aquila), i G14 (il G8 più Brasile, India, Cina, Messico, Sudafrica ed Egitto), la Ue, l’Unione africana (53 Paesi), il Bric (Brasile, Russia, India e Cina), i meeting, i summit. Come se le nazioni, data per scontata la necessità di decisioni incisive di fronte a crisi sempre più improvvise e globali, cercassero strumenti più specifici e rapidi di quanto ormai sia il glorioso macchinone dell’Onu.Non va nascosto, infine, lo stillicidio di critiche che da qualche tempo mina la credibilità del segretario generale, il coreano Ban Ki-moon, oggi a metà del suo mandato. L’incidente più clamoroso è venuto da un Paese per il solito discreto come la Norvegia. Mona Juul, numero due della missione norvegese al Palazzo di Vetro, ha tolto la pelle al Segretario in un rapporto "riservato" finito, forse non per caso, su tutti i giornali. Ma se si analizza il rapporto, si vede che il Segretario sconta difetti che sono dell’istituzione: «In un momento in cui servono soluzioni multilaterali alle crisi, le Nazioni Unite si fanno notare per la loro assenza»; «In aree di crisi come Darfur, Somalia, Pakistan, Zimbabwe, Congo, gli appelli del Segretario Generale cadono nel vuoto». Come si diceva, e come dice anche la Juul, «il vuoto viene riempito da altre istituzioni». Difficile che sia colpa del solo Ban Ki-moon. Più probabile che la crisi di fiducia delle nazioni nella loro unità non si sia ancora risolta.