La coincidenza tra una giornata straordinariamente positiva per l’andamento delle quotazioni della Borsa italiana (e spagnola) e il collocamento di titoli di Stato e l’acido giudizio delle autorità europee sulla permanenza di un rischio di contagio che proverrebbe dalla situazione di bilancio italiana ha suscitato interrogativi e sospetti non privi di fondamento. Mario Monti ha risposto con nettezza, che non dissimula il fastidio per insinuazioni infondate, che quel pericolo di «contagio» non esiste, e lo ha potuto fare con maggiore autorevolezza in base ai dati contenuti nel Documento di finanza pubblica appena elaborato dal governo. D’altra parte è nota la tendenza dei mercati internazionali (in cui sono fisiologicamente presenti componenti speculative) a enfatizzare le situazioni di pericolo, sanzionandole in modo più che proporzionale, com’è accaduto anche per i titoli pubblici italiani nell’ultimo biennio. In questa fase, però, i mercati non hanno affatto espresso una tendenza punitiva, al contrario lasciano trapelare un certo ritorno di fiducia, il che porta inevitabilmente a considerare l’arcigno atteggiamento dell’eurocrazia come una scelta di carattere politico, non fondata su argomenti economici di una qualche consistenza.Le domande che nascono spontaneamente riguardano le ragioni di questo atteggiamento e che cosa si può fare per contrastarlo. In un recente passato le critiche provenienti dall’estero e soprattutto da Bruxelles sono state elemento di divisione e di polemica anche aspra tra le forze politiche di governo e di opposizione in patria, ma dopo che le principali formazioni hanno condiviso la responsabilità di un risanamento a tappe forzate gestito del governo tecnico, ha prevalso almeno a parole la comune intenzione di sfruttare la condizione di equilibrio raggiunta per promuovere misure per la crescita. Non è poco, anzi è già una base importante.Un’interpretazione ancora più rigoristica della linea di rigore già accettata dall’Italia, come quella che traspare dall’atteggiamento delle autorità europee (ma non della Banca centrale), impedirebbe infatti di aprire qualsiasi spazio per uscire dalla recessione, per evitare di dare un carattere strutturale alla disoccupazione crescente. Si direbbe, però, che l’eurocrazia, che ha conquistato un vasto potere esercitando la funzione di cane da guardia del rigore imposto soprattutto dalla Germania, intenda non mollare la presa, nonostante sintomi meno pesanti dai mercati, per mantenere questa condizione gerarchica. Forse sullo sfondo c’è lo scontro sordo tra la Banca centrale europea, che avrebbe interesse a non separarsi dalle scelte espansive delle 'sorelle' americana e giapponese, e i governi più 'rigoristi' – a cominciare da quello di Berlino che si prepara a una verifica elettorale – che insistono su una rappresentazione forzata (ma gradita agli elettori) di un’Europa meridionale di 'spendaccioni' che vorrebbero essere mantenuti dai laboriosi tedeschi e dagli altri nordici.
L’Italia ha molte ragioni per rivendicare rispetto per gli sforzi che ha compiuto e fiducia nella solidità dei suoi fondamenti economici. Se le forze politiche responsabili, che condividono questo obiettivo, ne facessero l’asse di una azione convergente, sulla quale valutare i caratteri che dovrà avere il nuovo quadro politico e di governo, sarebbe probabilmente più facile sconfiggere l’iper-rigorismo punitivo e condurre una battaglia unitaria per evitare l’interpretazione jugulatoria del Fiscal Compact e per riformarlo ridando fiato a tutta, ma davvero tutta, l’economia europea. Non sono in effetti molti gli obiettivi che possono accomunare, per un tempo dato, secondo il classico schema delle «larghe intese », le minoranze che oggi abitano la nostra scena politica, questo è certamente uno di essi.