Tra le mille massime attribuite a Mao Zedong una, sorprendentemente, recita: «Lasciar sbocciare cento fiori e permettere che cento scuole di pensiero si sfidino è la via per promuovere il progresso nelle arti e nelle scienze e per la fioritura di una cultura socialista nel nostro Paese». Una strategia che diremmo liberale, in cui la concorrenza tra le idee fa germogliare ciò che meglio risponde alle esigenze della società. Una strategia che il Grande Timoniere ben si guardò dall’applicare, preferendo l’unanimismo imposto con la forza, affinché dottrine concorrenti non minassero la pretesa superiorità del comunismo e della sua incarnazione nel regime di Pechino. Abbandonata la sua eredità, l’attuale leadership cinese ha seguito il Mao del detto "liberale" nell’ambito economico, sfruttando la laboriosità confuciana di una popolazione immensa per lanciare l’ex Impero di Mezzo verso il primato mondiale. Ma sul fronte interno vige sempre la censura di ogni dissenso. La «libertà di espressione e di culto, il libero accesso all’informazione» evocati ieri da Barack Obama nel suo incontro con gli universitari a Shanghai sono esattamente quei «cento fiori» che potrebbero rendere viva e colorata la nazione oggi oppressa nel grigiore del Partito unico. Non a caso l’incontro con i giovani era l’appuntamento più temuto dai governanti cinesi, che hanno cercato di limitarne l’impatto selezionando i partecipanti, permettendone la trasmissione soltanto su una tv cittadina e dandone uno scarno resoconto sugli altri media. Soltanto chi ha accesso a Internet poteva seguire la diretta sul sito della Casa Bianca, non oscurato per i navigatori di Pechino. Sentir parlare di «diritti umani universali» di cui devono godere tutti i popoli costituiva proprio ciò che i capi del regime non volevano dalla visita del presidente americano. Il fresco premio Nobel per la Pace, comunque, ha finora pesato con cura le parole, dando più spazio alle espressioni di amicizia e di lode per la Cina che non ai richiami contro le violazioni perpetrate ai danni delle minoranze religiose ed etniche. La Realpolitik imposta dalla crisi fa peraltro il gioco del regime. L’8,9% di crescita del Pil nell’ultimo trimestre (contro il 3,5% americano), il surplus commerciale investito in titoli del debito pubblico di Washington, la momentanea convergenza di interessi anche sul tema del clima (un rinvio toglie problemi a entrambi) rendono la Cina un "alleato" obbligato per la Casa Bianca e la stessa economia planetaria. Se il gigante asiatico dovesse fronteggiare eccessivi scossoni da parte di un movimento democratico diffuso, se fosse costretto a investire risorse per contrastare le spinte dal basso (i contadini ancora poveri e la borghesia abbastanza ricca per chiedere libertà) e quelle centrifughe alla periferia (dal Tibet allo Xingjian), la locomotiva di Pechino rischierebbe di rallentare pericolosamente, con forti conseguenze per il sistema complessivo. Magari con qualche sfogo di tensioni sul versante internazionale. E gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione, in questo preciso momento, di avviare un’escalation militare nel Pacifico. L’accenno di Obama ai diritti universali è forse servito a «salvarsi l’anima» (anche se meglio del silenzio totale ipotizzato alla vigilia), ma la sua cautela risulta certamente in sintonia con una politica di interesse nazionale. Molto meno con quello che ci si potrebbe attendere da un punto di vista idealistico da parte del presidente dell’iperpotenza democratica. Di fronte alle concessioni utilitaristiche alla Cina (e ai timori che in questo modo cresca la sua influenza), l’unica consolazione è che la frase di Mao sui «cento fiori» ci ricorda come l’arma più potente resti ancora nelle nostre mani. Quando non avremo paura delle ritorsioni e dei contorcimenti del gigante asiatico, potremo dare impulso esterno a quelle cento scuole di pensiero capaci di far esplodere le contraddizioni di un Paese troppo dinamico per restare chiuso nell’angusto recinto che imprigiona le coscienze.