Di fatto sarà un’invasione, anche se formalmente la spedizione militare è volta – sono parole del ministro degli Esteri Mavut Cavusoglu – «a ripulire il confine siriano dai terroristi e assicurare la stabilità della Turchia». Teatro dell’operazione, un’area a est del fiume Eufrate fino al confine con l’Iraq che si estende in territorio siriano per 480 chilometri e 32 di profondità. Una zona-cuscinetto destinata a diventare un’area di sicurezza nel nord della Siria controllata direttamente da Ankara e di conseguenza un corridoio per far rifluire i profughi siriani attualmente stanziati in Turchia verso il Paese d’origine.
Con un piccolo quanto scomodo dettaglio: si tratta di una porzione della regione fino a oggi controllata dai curdi, segnatamente dalle milizie della Yekîneyên Parastina Gel ( Ypg, l’Unità di protezione popolare), emanazione siriana del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan fondato oltre trent’anni fa da Abdullah Ocalan, l’ala armata dell’irredentismo curdo che da sempre è la spina nel fianco di Recep Tayyp Erdogan. Inutili, per ora, le preoccupazioni espresse dall’Onu e dall’Unione Europea: l’operazione dispone del via libera di Donald Trump.
Il presidente americano (fino all’altro ieri sostenitore dei curdi) ha fatto sapere che le truppe a stelle e strisce presenti nella zona non sosterranno né saranno coinvolte nell’operazione e «non saranno più nelle immediate vicinanze ». In altre parole, Washington guarderà dall’altra parte mentre i carri armati di Erdogan entreranno in questo spicchio di Kurdistan, a testimonianza di un groviglio di interessi e di rivalità che coinvolge potenze tra loro alleate nella Nato come Francia, Turchia e Stati Uniti, ma divise e contrapposte nel puzzle siriano e potenze come la Russia e l’Iran, tutte quante tuttavia accomunate da un unico vero interesse condiviso: quello di scongiurare la nascita di un Kurdistan indipendente, visto dai turchi come fattore di profonda destabilizzazione dell’area e da molti altri come un pericoloso concorrente economico grazie al potenziale controllo della ricca zona petrolifera irachena.
D’altra parte lo stesso Trump si lagnava mesi fa affermando: «Il Medio Oriente ci è costato 7mila miliardi dollari e in cambio non ne abbiamo avuto nulla», concludendo con un pilatesco: « Let the other people take care of it now », lasciamo che ora se ne occupino altri. Anche a costo di tradire l’alleato curdo, di sguarnirne le difese in Siria e di consentire, forse, al Daesh di riorganizzarsi lasciando fuggire centinaia di guerriglieri catturati a suo tempo proprio dall’Ypg. Ma non attribuiamo a Trump un ruolo che in realtà non ha. Perché a dispetto delle apparenze non è lui ad accendere il semaforo verde a Erdogan, dietro cui viceversa si staglia ben visibile la sagoma di Vladimir Putin, il vero demiurgo di questa operazione. Senza mai davvero nominarlo, Mosca appoggia l’intervento turco definendolo «un passaggio obbligato per l’integrità territoriale della Siria». Il che non è altro che un credito che Erdogan insistentemente sollecitava, dopo aver firmato il ricco contratto da 2,5 miliardi di dollari per il sistema di difesa missilistico S-400 prodotto dal colosso russo della Difesa Almaz-Antey, che grande imbarazzo ha prodotto nei corridoi della Nato.
Grazie al beneplacito russo (sarebbe la terza volta in realtà che la Turchia sconfina in zona curda in Siria), il destino dei curdi viene scambiato sulla scacchiera mediorientale come una pedina sacrificabile in nome della stabilità regionale. Rimane un aspetto di questa vicenda che appare particolarmente inquietante e ne richiama alla memoria almeno tre: il genocidio degli armeni cristiani – Metz Yeghern, 'il grande male' – per mano turca sotto gli occhi e con la complicità quanto meno omissiva della Germania, l’eccidio dei musulmani di Srebrenica del 1995 da parte delle milizie di Ratko Mladic in Bosnia-Erzegovina e quello dei palestinesi di Sabra e Chatila del 1982 perpetrato dalla Falange maronita in Libano. In tutti i casi, chi avrebbe potuto impedire il massacro – i tedeschi del Secondo Reich in Asia Minore, gli olandesi dell’Unprofor nei Balcani e l’allora ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon a Beirut – girò la testa dall’altra parte. Solo i primi, i tedeschi, hanno ammesso solennemente il loro tragico torto. E abbiamo forti timori che la 'pulizia' del confine siriano cui allude il ministro degli Esteri turco potrebbe diventare qualcosa di tragicamente simile.