Il dollaro è malato. E a testimoniare la misura della sua sofferenza non è tanto il petrolio, le cui quotazioni sono grosso modo stabili, ma l’oro. Da due settimane infatti la discesa del biglietto verde nei confronti delle principali valute (ieri sull’euro gravitava attorno a quota 1,48) si accompagna ai continui record di questo tradizionale bene rifugio, tanto che nel pomeriggio l’oro sfondava quota 1056 dollari l’oncia. Le ragioni di questa fuga in avanti del metallo giallo sono essenzialmente di ordine psicologico: come ha scritto qualche giorno fa il
New York Times, «gli investitori sono disposti a comprare di tutto tranne i dollari». Non è un caso che da marzo a oggi la principale valuta mondiale abbia perso il 15% rispetto all’euro mentre il rialzo dell’oro nell’anno in corso supera già il 20%.Ma il rapporto fra le quotazioni del dollaro e quelle dell’oro non è di per sé sufficiente a spiegare cosa sta accadendo veramente alla valuta americana. La chiave sta probabilmente in due parole dal suono vagamente esotico: una è "Bric", l’altra è "Khaleeji". La prima è l’acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, ad indicare quel quartetto di potenze economiche (e militari) che intende giocare un’impegnativa partita negli anni a venire su scala mondiale, il cui obiettivo - dichiarato o meno - è quello di sostituire al monopolio del dollaro sui mercati un paniere di monete (euro, yen e yuan, ma anche di materie prime come l’oro) come unità di scambio per le transazioni internazionali, a cominciare da quelle petrolifere. In questo senso il
Khaleeji (che in arabo significa letteralmente "del Golfo") è stato il protagonista di un vertice segreto - ancorché blandamente smentito dagli interessati - fra Cina, Russia, Giappone, Francia, Arabia Saudita e Emirati del Golfo Persico per includere nel potenziale paniere destinato a sostituire il dollaro anche la moneta unica araba, il
Khaleeji, appunto, che dovrebbe entrare in vigore entro il 2013 ed essere agganciata all’oro, ristabilendo così quella parità aurea che non esisteva più dal 1971, da quando cioè Richard Nixon abolì la convertibilità del dollaro in oro in vigore con gli accordi di Bretton Woods fin dal 1944.Stando a questo disegno, il dollaro diventerebbe gradualmente una valuta ancora importante ma in qualche modo periferica, non più strategica. Come si vede, è un progetto ambizioso, anche se non privo di pericoli, in quanto il dollaro rappresenta tuttora una nazione che vanta il 20% del Pil mondiale e che ha emesso una montagna di titoli del debito pubblico che da sola occupa il 65% delle riserve valutarie di tutto il pianeta. E proprio quella massa immane di
Treasury Bonds, di cui la Cina (800 miliardi) e il Giappone (724) sono strapieni comincia a impensierire anche i banchieri centrali di Brasilia (138 miliardi di riserve), i signori dell’Opec (189 miliardi) e le banche off shore caraibiche (193 miliardi): un dollaro in caduta libera infatti non farebbe che impoverire queste riserve lungamente accumulate, che ora stanno diventando ingombranti oltre che meno sicure. Lo stesso presidente della Bce Trichet ieri ammoniva: troppa volatilità sui cambi è dannosa.Non sappiamo se questo disegno assumerà davvero i contorni di una svolta storica, ma di un fatto possiamo dirci ragionevolmente certi: la potenza economica americana è in seria difficoltà, al suo interno come all’estero, e per usare una frase del presidente della Banca Mondiale Robert Zoellick, «una delle conseguenze di questa crisi potrebbe essere l’accettazione del fatto che i i rapporti di forza economici sono cambiati». Non sono parole dette a caso: c’è già una data teorica fissata dai Paesi emergenti per sancire l’abbandono del dollaro, ed è il 2018. Dubitiamo che ciò possa avverarsi senza gravi frizioni internazionali, ma il progetto esiste, eccome.