Tra pochi giorni prenderà ufficialmente avvio l’Unione Europea così come il tormentato Trattato di Lisbona l’ha concepita: un sodalizio politico, economico e sociale di ventisette nazioni e mezzo miliardo di persone, che giovedì sera a Bruxelles si sono anche date un presidente stabile e un alto commissario agli Affari Esteri, due figure cioè che rappresenteranno l’Europa nei consessi mondiali, in quel G3 che si verrà a costituire insieme ad America e Cina, in tutte le occasioni – d’emergenza e non – in cui il Vecchio Continente dovrà parlare con una sola voce. E la voce prescelta sarà – com’è noto – quella della baronessa britannica Catherine Ashton, vicepresidente della Commissione e di fatto ministro degli Esteri della Ue per cinque anni. A guidare l’Unione sarà invece il belga Herman Van Rompuy.Inutile nascondersi dietro un dito: questa Nuova Europa non nasce con il carisma di George Washington o Thomas Jefferson e le due figure designate – che attendiamo alla prova dei fatti e sulle quali non è lecito ironizzare anzitempo – non sono che l’esito obbligato di una catena di compromessi. È bene dunque rielencare le condizioni in cui questa scelta è maturata traendone, per quel che è possibile, delle prime conclusioni.La regia occulta del vertice dei capi di Stato e di governo è stata di Angela Merkel. Probabilmente i due nomi presentati dalla presidenza svedese la cancelliera li aveva già in tasca prima della cena. Tutti i maneggi, le ipotesi, le candidature di sbarramento, le girandole di nomi giungevano alle orecchie di noi giornalisti con lo stesso ritardo fisico con cui ci arriva la luce delle stelle: in realtà erano ipotesi già tramontate. Il fatto certo è che né alla Francia né alla Germania piaceva la candidatura di Tony Blair alla presidenza stabile: troppo vistoso, troppo carismatico, in una parola troppo ingombrante. Agli inglesi però si doveva concedere qualcosa in cambio di un via libera sulle nomine dei commissari che contano. E allora ecco spuntare la candidatura della signora Ashton, premiata anche perché donna e perché inglese. In questo labirinto sotterraneo (ma inevitabile negli affari europei, e non soltanto in quelli) è tramontata la candidatura di Massimo D’Alema, inizialmente sostenuto dall’Internazionale socialista e successivamente da buona parte del Pse, ma poi sacrificato dai suoi stessi compagni per accontentare Londra. Bene ha fatto il governo italiano a sostenerlo lealmente e risibili paiono le giustificazioni del capogruppo socialista Schulz circa un disimpegno dell’Italia, che viceversa ha fatto tutto il possibile per sostenere l’ex premier ds, arrendendosi solo di fronte all’evidenza di una scelta irrevocabile.E come non notare che dietro a due nomine di profilo non smagliante si intravede senza fatica quell’asse franco-tedesco che interseca i suoi interessi con Londra e che sovente si accusa – non senza buone ragioni, come si vede – di far la parte del leone in Europa? Certamente, con le scelte di Bruxelles la latitudine della Ue si sposta fatalmente più a nord. Ma il fatto meno incoraggiante è che siano prevalsi, come sempre, gli egoismi nazionali. Quasi a voler sancire fin dall’inizio che in questa Europa sono in molti a credere poco. Per il sessantaduenne fiammingo Van Rompuy – del quale si dice per la verità un gran bene come negoziatore e come intellettuale integerrimo e schivo – e per la baronessa Ashton la strada comincia decisamente in salita. Ma fu così anche per George Washington, a dire il vero.