giovedì 15 ottobre 2015
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L'approvazione in Senato, martedì scorso, della riforma costituzionale costituisce un passaggio fondamentale per condurre in porto il disegno di revisione del sistema rappresentativo e del rapporto fra centro e periferia voluto dal Governo Renzi. Certo, molti altri passaggi saranno necessari: un altro voto della Camera (verosimilmente prima di Natale), dopo il quale, se non verranno introdotti altri emendamenti rispetto al testo uscito dall’aula di Palazzo Madama, una ulteriore deliberazione da parte di ciascuna delle due Camere (questa volta a maggioranza assoluta) e, per volontà dichiarata dello stesso premier e di un variegato schieramento politico, un referendum confermativo. Il tutto richiederà circa un anno, ovviamente sul presupposto che non sorgano intoppi. Ma il voto di martedì pomeriggio consente anche di misurare la strada percorsa, sia riguardo ai contenuti della riforma che alle reazioni che essa sta generando.I contenuti anzitutto. Il disegno di legge Renzi-Boschi interviene su poco meno di 40 articoli della Costituzione, ma gli interventi principali sono concentrati su quattro nodi scoperti da tempo e intrecciati fra loro: la composizione e l’elezione del Senato (dunque la struttura del bicameralismo), le funzioni del Senato stesso, il procedimento di formazione delle leggi, il rapporto fra Stato e Regioni.Il cambiamento principale riguarda la struttura del nuovo Senato, i cui componenti vengono ridotti da 315 a 100, 95 dei quali saranno espressione del sistema delle autonomie territoriali, e in particolare delle Regioni. Se nel testo della riforma originariamente presentato dal Governo i senatori sarebbero stati eletti dai Consigli regionali, un emendamento approvato a Palazzo Madama (nel quale ha preso corpo un compromesso fra la maggioranza e la minoranza del Partito Democratico) ha precisato che tale elezione avverrà in conformità alle indicazioni espresse dai cittadini in occasione delle elezioni regionali. In tal modo si è scelta una soluzione a metà fra un’elezione diretta (prevista nella Costituzione attuale) e l’elezione indiretta (la soluzione preferita dal Governo) e si è tornati all’assetto ibrido che caratterizzava la riforma del centrodestra respinta nel referendum del 2006, vale a dire all’elezione dei senatori contestualmente a quella dei Consigli regionali, tentando così di combinare l’opzione per un Senato espressione delle autonomie territoriali con quella per un’elezione popolare. Non è certo una soluzione brillante, ma è il prezzo pagato sull’altare della battaglia condotta dalla minoranza interna del Pd, favorevole a un Senato eletto dal popolo con funzioni di garanzia. Il compromesso ha limitato i danni, ma ha incrinato la chiarezza della soluzione voluta dal Governo: quella – di cui si discute da 40 anni e che godette di considerevoli favori già in Costituente – di una Camera delle Regioni, che per essere davvero tale deve essere espressione delle istituzioni territoriali autonome.Cambia dunque la natura del Senato, che diventa la sede del raccordo fra lo Stato, le autonomie e l’Unione Europea, e non più un doppione della Camera. Cambiano anche le sue funzioni: la sua posizione non è più equiordinata alla Camera, salvo che in alcuni campi (come le leggi di revisione costituzionale), e non concederà più la fiducia al Governo. Anche il procedimento legislativo è stato ridefinito per dare prevalenza alla Camera, mentre il Senato potrà in vario modo sollevare obiezioni e proporre emendamenti, ferma restando l’ultima parola dell’Assemblea di Montecitorio, che diventa l’unica sede della rappresentanza nazionale, come accade in quasi tutti i regimi parlamentari del mondo.Infine, la riforma ridisegna il rapporto Stato-Regioni in direzione chiaramente ricentralizzatrice: questa è in effetti la parte più discutibile del ddl Renzi-Boschi, che si presenta quasi come una controriforma rispetto al sistema semi-federale costruito nel 1999-2001. Ma da un lato le Regioni dovrebbero recuperare col loro ruolo in Senato alcuni dei poteri persi in termini di competenze e dall’altro non si può negare che la riforma del Titolo V del 2001 sia stata sostanzialmente smantellata negli scorsi anni dalle sentenze della Corte costituzionale. Vi è qui, certo, un problema aperto, su cui sarà inevitabile tornare in futuro.Nel complesso si tratta di cambiamenti di notevole importanza, discussi da decenni, che vanno letti assieme alla riforma elettorale approvata a maggio. Si tratta di modernizzazioni costituzionali necessarie, soprattutto il superamento del bicameralismo paritario e la creazione di un Senato espressione delle autonomie territoriali. Ovviamente molte delle soluzioni previste nella riforma sono opinabili, e non mancano alcune contraddizioni. Ma il testo introdurrebbe un chiaro miglioramento della Costituzione vigente, mettendola a norma con gli standard prevalenti fra le democrazie europee più avanzate. Se si può discutere sulla qualità del risultato complessivo (che in alcuni passaggi non appare entusiasmante, come nel caso del nuovo sistema di elezione del Senato), si può però essere certi che è falsa la tesi, più volte ripetuta in questi giorni dagli avversari della riforma, secondo cui questa "stravolgerebbe la Costituzione". Nessuna fra le soluzioni sinora volute dal Parlamento giustifica queste affermazioni, che provengono soprattutto da nostalgici non della Carta del 1947, ma delle sue degenerazioni in voga negli anni Settanta del Novecento.
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