Se uno straniero va espulso perché presente irregolarmente sul territorio nazionale, è quanto meno una contraddizione metterlo in carcere. Vista sotto questo aspetto, la sentenza emessa ieri dalla Corte di giustizia europea (organo giurisdizionale di quell’Unione alla quale l’Italia fa appello quasi ogni giorno per avere il giusto e doveroso sostegno nella gestione dei flussi migratori provenienti dai tormentati Paesi dell’Africa settentrionale) è un esercizio di mera logica, in quanto tale incontrovertibile. Si potrebbe aggiungere che uno Stato da anni alle prese con il sovraffollamento delle sue prigioni non dovrebbe avvertire il bisogno di 'inventare' nuove fattispecie di reato, incrementando così fatalmente le schiere dei reclusi. Ma il verdetto dei giudici di Lussemburgo non considera ovviamente tali ragionamenti. Va oltre e afferma un principio di diritto. Non astratto, si badi bene, ma molto concreto, calato nella realtà quotidiana nella stessa misura in cui prende le mosse dal caso di un signore straniero condannato e finito dietro le sbarre a Trento per non aver ottemperato all’obbligo di tornarsene a casa disposto dal prefetto di Torino e ribadito dal questore di Udine. Un principio che investe le responsabilità della Repubblica italiana di fronte alle direttive della stessa Ue. E che tocca da vicino il diritto incancellabile di qualsiasi persona alla propria dignità. Quando, nell’agosto di due anni fa, il Parlamento trasformò in reato l’ingresso e la permanenza irregolare sul nostro suolo patrio, un editoriale di Avvenire mise in rilievo che quella nuova 'creazione' penale portava in sé «la carica negativa di un giudizio sommario e ingiusto». Prima di tutto perché «nessun essere umano può mai essere definito 'clandestino' sulla faccia della Terra» e, poi, perché la norma rischiava «di diventare non un’arma contro l’irregolarità» bensì «uno strumento persecutorio» nei confronti di migliaia di immigrati in cerca soltanto di un’esistenza migliore. La premessa, allora come oggi, è che «uno Stato ha il diritto-dovere di stabilire le norme del vivere civile e del civile stare e restare nei suoi confini, e ha anche il compito di evitare che si consolidino situazioni di irregolarità e di abuso». Ora la sentenza della Corte europea imprime a quelle argomentazioni il sigillo di un’ufficialità che i giudici italiani saranno tenuti a osservare. E che, evidentemente, il governo e le Camere non potranno ignorare. Certifica, infatti, che la normativa italiana è in contrasto con la direttiva comunitaria in materia (la numero 115 del 2008) e «rischia di comprometterne l’obiettivo », ovvero «l’instaurazione di una politica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare». Insomma, anziché agevolare i rimpatri, il reato di clandestinità li rende più problematici. Del resto, appena due giorni fa, con una decisione passata quasi inosservata, è stata la nostra Corte di Cassazione – escludendo l’applicazione di pene più severe agli extracomunitari irregolari che non esibiscono i documenti di riconoscimento alle forze dell’ordine – a segnalare il reale pericolo che il «crescendo sanzionatorio-repressivo» possa compromettere l’obiettivo «dell’espulsione dal territorio nazionale nel più breve tempo possibile». Sono, quelle in questione, solo le ultime due sentenze di una lunga serie che ha portato allo scoperto i punti deboli di un impianto legislativo nato ambizioso (ardito?) e rivelatosi invece poco solido, se non, appunto, controproducente rispetto agli stessi scopi che si propone. Un’ultima notazione, non certo per importanza: la Corte di giustizia dell’Unione Europea, elencando le circostanze considerate ai fini della sua deliberazione, ricorda che «la direttiva 2008/115 non è stata trasposta nell’ordinamento giuridico italiano». Riparare a questa inadempienza (come da più parti, da tempo, si chiede) significherà, inevitabilmente, adeguarsi alla sentenza di ieri. Il reato di clandestinità è un grave errore, umano e giuridico.