In molti, dentro e fuori l’Iran, avevano cominciato a sperarci, a credere che fosse possibile avere un presidente meno radicale, meno populista e oppressivo all’interno del Paese e meno avventuriero verso l’esterno. Nelle ultime settimane, dopo un lungo periodo di apatia e rassegnazione, sembrava essere tornato l’entusiasmo fra sostenitori di Mir Hossein Mussavi, il candidato riformista più accreditato, confortati da sondaggi ufficiosi che lo davano in netto vantaggio. Anche le 'aperture' del regime, che ha permesso comizi pubblici e infuocati dibattiti televisivi, avevano creato alte aspettative. Fino ad alcuni anni fa, infatti, le elezioni iraniane erano tutto sommato democratiche e gli esiti delle urne veritieri, dato che il regime si accontentava di selezionare i candidati prima del voto. I risultati annunciati ieri, al contrario, lasciano davvero perplessi. Mahmud Ahmadinejad si conferma presidente con oltre il 60% dei voti, nonostante l’altissima partecipazione popolare, l’85% secondo i dati del ministero dell’interno. Chiunque conosce l’Iran sa che conservatori e ultraradicali rappresentano una minoranza nel Paese; le loro vittorie degli ultimi cinquesei anni si sono costruite sempre sul nonvoto dei riformisti. Lo stesso Ahmadinejad divenne sindaco di Teheran nel 2003 grazie a un astensionismo senza precedenti nella capitale. Che oltre l’80% degli elettori si sia stavolta recato al seggio per scegliere in massa lui sembra dunque poco credibile. Il presidente può contare su un forte seguito nelle zone rurali e nelle province, ma nelle grandi città risulta altamente impopolare, soprattutto fra i giovani, che rappresentano una fetta consistente dell’elettorato. Sarà interessante leggere nel dettaglio i risultati, per analizzare il voto di Teheran, una megalopoli di più di 10 milioni di abitanti, così da soppesare meglio l’ipotesi di manipolazione delle urne. Dal canto suo, Mussavi ha parlato di una farsa, appellandosi all’ayatollah Khamenei, affinché disponga nuove e libere consultazioni. Una richiesta caduta nel vuoto, dato che il leader supremo ha subito definito la giornata elettorale una festa di popolo, invitando tutti a riconoscere la vittoria di Ahmadinejad. E per rafforzare il messaggio, la polizia è intervenuta con estrema durezza contro chi manifestava per i presunti (e probabili) brogli. Non aspettiamoci ripensamenti, quindi: Ahmadinejad resta a capo della Repubblica islamica e il regime può celebrare il sostegno e la legittimità di cui godrebbe. E una cappa plumbea può ridiscendere sulla nazione. Ma ora che è stato rieletto per il secondo mandato, la comunità internazionale che cosa deve aspettarsi da Ahmadinejad? Dalla sua prima elezione nel 2005 molte cose sono cambiate: l’Iran è geopoliticamente più forte, gli Usa più deboli e meno minacciosi: ora che c’è Obama al posto di Bush, l’obiettivo americano non è più abbattere la Repubblica islamica bensì negoziare e trovare un accordo con essa. La partita sul nucleare sembra quasi vinta per Teheran: possiede la tecnologia per arricchire l’uranio ed è sempre più vicina ad avere la capacità potenziale per assemblare un ordigno nucleare (sempre ammesso che lo voglia davvero). Intanto le difficoltà occidentali in Afghanistan e in Pakistan e la fragilità irachena spingono ad aperture diplomatiche verso gli ayatollah. Aperture che potrebbero dare all’Iran quel riconoscimento internazionale di cui si sente privato da trent’anni, oltre a grandi aiuti per la propria disastrata economia. Se il presidente fosse un attore razionale, questo sarebbe il momento per capitalizzare, avviando trattative serie con l’America da posizioni di forza. Ma un leader che ha costruito tutta la sua immagine su posizioni radicali d’antagonismo all’Occidente, sull’avventurismo politico, sul populismo più becero sarà capace di smentire se stesso e i suoi detrattori? Di certo, per gli iraniani delusi dalla primavera riformista del presidente Khatami (1997-2005), il tetro inverno degli ultraconservatori si annuncia ancora molto lungo.