Leggere nei Report dell’Istat che il 2016 è stato l’anno più favorevole, degli ultimi quattro, sotto il profilo della sopravvivenza è qualcosa che fa certamente piacere. È vero che si caratterizza per la seconda più alta frequenza annua di decessi mai registrata dal dopoguerra (615 mila), ma almeno è un dato che attesta un ribasso rispetto al 2015. Ossia rispetto a un anno che, con un picco di 648 mila morti, aveva sollevato non poche legittime preoccupazioni, circa le cause di tale impennata – per altro ancor oggi non del tutto chiarite – e le prospettive che un siffatto aumento potesse trasformarsi da occasionale in strutturale. Se dunque il calo di decessi osservato nel 2016 (-5%) va letto con una certa soddisfazione, un’accoglienza ancor più benevola va riservata al contemporaneo recupero sul fronte della 'durata media della vita'. Mentre alle condizioni di sopravvivenza del 2015 un neonato avrebbe avuto davanti a sé (mediamente) 80,1 anni di vita attesa, se maschio, e 84,6 se femmina, in base a quelle del 2016 tali valori sono saliti, rispettivamente, a 80,6 e 85 anni, segnando un guadagno di circa 6 mesi per entrambi i sessi. Inoltre, l’allungamento della aspettativa (media) di vita non si è limitato alla fascia della prima infanzia. Di esso hanno beneficiato, dopo il modesto regresso nel 2015, sostanzialmente tutte le età, con persino una maggiore intensità in corrispondenza di quelle che sono più avanti negli anni. Basti pensare che l’aumento della frazione di vita residua attesa è stato nell’ordine del 3% per i settantenni e del 5% per i novantenni, laddove si è rivelato inferiore all’1% per i ventenni e per i trentenni.
Nel panorama di una vita che progressivamente si allunga, trova sempre più spazio prospettandosi come giustificata e pressoché necessaria – anche la prospettiva di spostare i confini che ne determinano le diverse fasi, specie quella che segna l’uscita dal mondo del lavoro. Ed ecco allora che se un sessantacinquenne del 2013 aveva una attesa di vita (determinata genericamente senza distinzione di sesso) pari a 20,3 anni e uno del 2016 ha beneficiato del passaggio a 20,7 anni, il prezzo che quest’ultimo dovrà pagare, secondo le recenti norme che regolano il welfare previdenziale, consiste nello spostamento in avanti dell’età al pensionamento.
Ma la lettura dei nuovi dati sulla mortalità non può limitarsi a registrare la soddisfacente tendenza nel riuscire a contenere, ben sapendo che siamo un Paese che condivide con Giappone e Germania il primato nella graduatoria dell’invecchiamento demografico a livello planetario, la dinamica dei decessi. Ci sono due punti che vanno (ri)considerati e che rischiano di moderare, se non proprio spegnere, il clima di ottimismo. Il primo nasce dalla constatazione che le buone notizie emerse per il 2016 non è detto che si ripresentino nel 2017. Parlando con in numeri: il bilancio dei decessi nei primi cinque mesi del corrente anno – il solo periodo per cui si hanno già i dati a disposizione – mostra un aumento del 9,7% rispetto alla frequenza di morti nell’analogo periodo del 2016 (e persino un +0,9% rispetto allo stesso intervallo del 2015). In particolare, gennaio 2017 si è caratterizzato per quasi 20mila morti in più rispetto a gennaio dell’anno prima, e fa riflettere il fatto che già nei mesi di novembre e dicembre 2016 la frequenza di morti fosse superiore a quella dei corrispondenti mesi del 2015. È l’effetto di fattori climatici che tornano a colpire i (nuovi) soggetti fragili? Il Report dell’Istat precisa che la classe di età 80-89 anni è quella che sembrerebbe aver registrato il più alto abbassamento del rischio di morte nel 2016 rispetto all’anno prima. Ma forse semplicemente perché i soggetti anziani più deboli erano già stati eliminati, in quanto colpiti dell’alta mortalità, nel corso del 2015 proprio in quella fascia di età? Il timore è che la storia possa ripetersi e che siano i più deboli a pagare il prezzo di una società che fatica a garantire anche ai meno abbienti quel diritto a cure adeguate e accessibili che tutti noi riteniamo irrinunciabile. Così come tutti noi vorremmo che sparissero dalla faccia delle statistiche i divari territoriali in tema di sopravvivenza che ancora oggi fanno bella mostra di sé.
È pur vero che non si tratta di variazioni enormi, ma è inaccettabile che un neonato della Campania o della Sicilia debba poter contare su un’aspettativa di vita che è di un paio d’anni inferiore a quella del neonato Trentino. Facciamo dunque in modo che anche in questo campo, forse ancor più che in altri, possa valere quel principio di uguaglianza che orgogliosamente affermiamo essere un punto fondamentale della nostra società e delle nostre leggi.