venerdì 10 maggio 2013
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C’è chi lancia invettive e ama demonizzare sistematicamente gli avversari, senza lesinare insulti o volgarità né incitamenti più o meno metaforici a "sparare". C’è poi chi inalbera striscioni di bieca impostazione razzista, per contestare ipotesi riformatrici sul diritto di cittadinanza dei "nuovi italiani" che possono e devono essere valutate, discusse e – finalmente – votate con cura e senza facilonerie propagandistiche, ma non possono certo essere ancora liquidate impugnando clave dialettiche o sfoderando slogan demonizzanti o addirittura razzisti. C’è infine chi, davvero da troppo tempo, coltiva con accanimento il vilipendio delle istituzioni democratiche, dipinte un giorno sì e l’altro pure come una ridotta di grassatori, meritevole di essere espugnata dalla furia popolare.Soprattutto contro quest’ultima pessima pratica, ma – ci sembra di poter dire – senza escludere le prime due, si è pronunciato ieri Giorgio Napolitano nel giorno della memoria dedicato alle vittime del terrorismo, celebrato per sua espressa volontà "riparatrice" nell’aula del Senato della Repubblica. Ha parlato improvvisando, il Capo dello Stato, e, come ormai gli capita sempre più spesso, ha parlato fuori dai denti. Forse perché l’anagrafe e la perdurante lucidità gli facilitano la chiarezza di analisi e la coltivazione della memoria. Nelle stesse ore, si incrociavano tra le forze politiche le lame affilate del dibattito sulla giustizia e sull’"effetto sentenze" per la tenuta della maggioranza ai suoi primi passi, registrando le chiamate in piazza e le ennesime asprezze contro la magistratura che «ammazza la democrazia» e via replicando sullo stesso terreno. Ma infuriava anche la polemica sui nuovi ignobili attacchi al ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Mentre piombava nella capitale il leader di Cinquestelle, per un giorno più impegnato sul fronte interno della coerenza dei suoi adepti che su quello della demolizione del vecchio sistema partitico, il quale ai suoi occhi presenta l’insopportabile difetto di non volersi autoliquidare. Su questo punto in particolare ha rivolto la sua attenzione il presidente della Repubblica, quando ha ricordato che i «luoghi della sovranità popolare e della sua rappresentanza democratica» non possono essere dipinti, con metodica protervia, come la sede «dell’oscuro potere», da additare ferinamente al pubblico ludibrio, senza rischiare presto o tardi di veder tracimare la violenza verbale in concrete azioni eversive. Questa del resto, ha sottolineato Napolitano, è la lezione della nostra storia recente, che ci impone di «imparare» la vigilanza proprio grazie al ricordo «del sacrificio delle vittime del terrorismo».La replica di Beppe Grillo, che ama alternare la contumelia spietata alla battuta corrosiva, è stata sul filo della noncuranza sarcastica, incapace tuttavia di celare il fondo di disprezzo che innerva la sua battaglia. Anche quando prova a giustificare la propria pesantezza come l’unica alternativa a rivolte ben più sanguinose, dimostra in fondo di non capire le regole del gioco democratico, che escludono per definizione spazi alla violenza. Inoltre, dà per scontata una capacità dell’opinione pubblica di "decodificare" e smitizzare il suo linguaggio che l’esperienza ha troppe volte tristemente smentito. Ecco perché è impossibile non concordare con il capo dello Stato, quando ricorda che «la violenza», qualunque violenza, «va combattuta, fermata, scongiurata prima che si tramuti in eversione». In fondo, il ricordo delle migliaia di caduti sul fronte della lotta armata, in coincidenza con la data simbolo dell’assassinio di Aldo Moro, dovrebbe partire proprio dall’evocazione dei prodromi di quella strage, rintracciabili in tantissime "parole", pronunciate in mille cortei e trascritte su innumerevoli pagine di giornale. Parole rimbalzate da una bocca all’altra e da un volantino all’altro, ascoltate con compiacimento e spesso giustificate con incoscienza. «Non possiamo essere tranquilli di fronte a certe esternazioni», dice Napolitano. Nessun democratico può esserlo. Noi non lo siamo.
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