Importanti sono importanti, e anche in numero considerevole. Eppure le biblioteche pubbliche statali – della cui situazione “Avvenire” ha reso conto con un’inchiesta pubblicata nei giorni scorsi – rappresentano solo una parte del patrimonio librario del Paese. Ci sono le biblioteche comunali, per esempio, che da sempre svolgono un ruolo determinante nella promozione della lettura. E poi le universitarie, le collezioni dei musei e dei conservatorii, e via elencando. Una geografia vastissima, che al dicembre del 2013 si traduceva in una galassia di quasi 13mila strutture (12.936 per l’esattezza, secondo i dati rilevati dal ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo). La maggior concentrazione, una volta tanto, sta al Centro (47% delle biblioteche), il Nord insegue (36%) e il Sud, purtroppo, si conferma in posizione svantaggiata (17%). Il problema però non è questo. Il problema è il fenomeno che, già qualche anno fa, l’Associazione italiana biblioteche descriveva come l’«eccesso di ribasso» che oggi finisce per accomunare realtà fra loro diversissime.C’è la questione del personale, anzitutto, che nel solo comparto delle biblioteche pubbliche statali si è più che dimezzato nell’arco di dieci anni (alla fine del 2013 gli addetti in servizio erano 961, contro i circa 2.500 del 2006, ma oggi la cifra reale è ancora più modesta). Mestiere poco invitante per i ragazzi del XXI secolo, si potrebbe pensare. E invece no, perché le università formano ogni anno un non trascurabile drappello di giovani molto preparati, per i quali le prospettive di un’occupazione stabile si fanno sempre più vaghe. Blocco del
turn over, scarsità di concorsi pubblici, incerte prospettive di carriera. La conseguenza è il crescente ricorso ai servizi offerti da strutture esterne, che svolgono il duplice compito di dare un lavoro, per quanto provvisorio, agli aspiranti bibliotecari e di colmare, in modo non meno temporaneo, le lacune del sistema.Domina, su tutto, la necessità di ridurre i costi gestionali, resa magari più drammatica dalla convinzione – più o meno esplicita, più o meno consapevole – che le biblioteche questo siano, in definitiva: un costo, un onere, nel migliore dei casi un lusso difficile da mantenere in tempo di crisi. Al di là di qualsiasi interpretazione polemica, del resto, il principio che sta alla base della riforma varata nel luglio scorso dal ministro Dario Franceschini e nel cui ambito si colloca il sostanziale ridimensionamento delle biblioteche pubbliche statali, è appunto quello di una più razionale ridistribuzione delle risorse. Spendere di meno e intanto mettere a reddito il patrimonio culturale. Si può fare? Probabilmente sì. Ma in un processo simile le biblioteche non possono non costituire un’eccezione, peraltro analoga a quella che dovrebbe mettere al riparo gli archivi (anch’essi, al contrario, direttamente interessati dai criteri di contenimento di spesa ai quali la riforma si ispira).Pensate per la lunga durata, le biblioteche sono in realtà un rifugio in tempo di crisi. Prosperano nel benessere, ma solo se qualcuno, nel trambusto delle epoche di passaggio, ha assecondato l’intuizione per cui prendersi cura di un libro non significa strappare un relitto al passato, ma consegnare un tesoro al futuro. Alla vigilia della Giornata che, in Italia e nel mondo, è dedicata alla celebrazione del libro e del diritto d’autore, un rinnovato e appassionato interesse per la sorte delle biblioteche potrebbe essere un modo per evitare le scorciatoie della retorica e riconoscere la lettura per quello che davvero è: un’occupazione meravigliosamente solitaria, talvolta faticosa, per la quale occorre sempre molto, molto tempo.