Gentile direttore,
ho letto con piacere e molta attenzione l’articolo di don Mauro Cozzoli apparso su 'Avvenire' del 29 agosto scorso. Ho ammirato la chiarezza delle argomentazioni (rese comprensibili anche a coloro che non hanno specifica competenza di Teologia Morale) e soprattutto la pacatezza dei toni. Ho apprezzato la rivalutazione delle componenti valutative di un atto – le circumstantiae e il finis operantis – da tenere in considerazione oltre al finis operis (finora quasi unico determinante). Quelli sarebbero la garanzia della assente difformità dal Magistero di Amoris laetitia e la chiave di un più adeguato discernimento circa l’appropriata prassi pastorale nei singoli casi particolari. Per secoli è bastata («per legalismo e oggettivismo etico egemone», afferma don Cozzoli) «la disapprovazione della legge – valevole indistintamente per tutti: non importa chi – a delegittimare e riprovare un comportamento. Papa Francesco, senza nulla togliere al valore e al ruolo della legge, quel metro lo ha riequilibrato sulla persona». Un passaggio, però, mi ha turbato: quello in cui don Cozzoli ammette che discernimento e rispetto del foro interno devono tollerare «la legittimazione soggettiva di scelte non ancora conformi alla legge, in un cammino progressivo di avvicinamento alla piena conformità». A questo proposito, osservo che la Chiesa ha ricevuto dal suo Sposo e Signore l’autorità di perdonare i peccati, anche i più gravi, ma mai di legittimarli. La Chiesa non può giustificare il male quand’anche commesso a fin di bene né può chiamare Bene il Male. Quindi, se la bella riscoperta delle varie componenti sopra ricordate conduce poi a ignorarne o alterar- ne una pur di giustificare a priori l’introduzione di una prassi pastorale nuova... qualcosa (a mio avviso, s’intende) non va. Osservo anche che la Chiesa non obbliga (più) nessuno a farsi cristiano e a vivere secondo il Vangelo e la sua Tradizione. Eppure, quanti matrimoni celebrati in chiesa sono nulli per evidente (persino ostentato) agnosticismo dei contraenti! Poi, spesso, simili coppie – prive di un fidanzamento cristianamente vissuto e totalmente avulse dalla vita della Chiesa – vanno in crisi, si separano, divorziano, si risposano e generano (altri) figli. Così li autorizza il loro foro interno che del consolidato Magistero della Chiesa non tiene conto alcuno. Il valore salvifico della Croce, che può ben manifestarsi nella vita matrimoniale, è ad esse sconosciuto; patiscono sommamente, più per puntiglio che per consapevolezza del Sacramento eucaristico, la 'discriminazione' di non potersi comunicare così come non tollerarono in passato di non 'sposarsi in chiesa come gli altri'. Saranno proprio simili coppie, io temo, a chiedere di beneficiare delle nuove norme. Ben difficilmente le coppie autenticamente cattoliche che hanno dovuto separarsi per gravissimi motivi poi divorzieranno, si risposeranno, metteranno al mondo altri figli e avranno la pretesa di essere ammesse all’Eucaristia. Annunciare, testimoniare, dialogare, sostenere, accogliere, includere, non giudicare, considerare gli altri superiori a sé sono atteggiamenti costitutivi dei cristiani: fare bene questo a favore delle famiglie in crisi a me sembra più che sufficiente. Al Papa, tuttavia, è dovuta obbedienza: ed io sono disposto a farlo, proprio perinde ac cadaver. Con stima e riconoscenza per 'Avvenire' e per lei personalmente.
Roberto Leonardi
Apprezzo anch’io della lettera del lettore Leonardi, che il direttore mi ha proposto per una replica, e la «pacatezza dei toni» che egli riconosce anche alla mia riflessione. Con la stessa pacatezza voglio fare chiarezza su quel «passaggio» dal quale dice di essere stato turbato: «Ammettere che discernimento e rispetto del foro interno devono tollerare 'la legittimazione soggettiva di scelte non ancora conformi alla legge, in un cammino progressivo di avvicinamento alla piena conformità'». Legittimazione che apre la via della grazia a coppie e famiglie segnate da incompiutezze, fragilità e imperfezioni, divorziati risposati in primis. «Così – egli scrive – li autorizza il loro foro interno, che del consolidato Magistero della Chiesa non tiene conto alcuno». Dunque nessuna integrazione nella vita sacramentale sarebbe possibile per tali fedeli, riportati e rinchiusi – direbbe san Paolo (Rm 6,15) – «sotto la legge», assunta a criterio unico e inflessibile di giudizio morale. Vale la norma, indistintamente per tutti. A prescindere da circostanze e intenzioni soggettive, a prescindere – quindi – dalle persone nella singolarità complessa e sofferta delle loro storie, del cammino di vita di ciascuna. A prescindere da appelli e sfide dei tempi, costituiti oggi da quel numero massivo e crescente di figli della Chiesa che hanno contratto matrimonio solo civile, che sono divorziati e risposati, o che semplicemente convivono, e sono diventati una grande 'questione pastorale'. A decidere per loro dovrebbe essere la legge: la mera difformità della situazione dai dettami della legge. Per cui non ci sarebbe posto per il discernimento e il foro interno – parte integrante anch’essi di «un consolidato Magistero della Chiesa» – e con essi per una «legittimazione soggettiva di scelte non ancora conformi alla legge». Non si tratta, sottolineo, di legittimazione oggettiva, che smentisce la legge e giustifica il male. Ma soggettiva, che rende meno colpevole o incolpevole la persona: «Un giudizio negativo su una situazione oggettiva – ricorda il Papa – non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona». Distinzione che vale in ogni altro campo del vissuto morale. Quante volte noi confessori assolviamo peccatori sulla base di uno spiraglio che si apre, di un principio di disponibilità a mettersi in gioco e in cammino sulla via del bene; affidandoli, come dice papa Francesco, alla «forza risanatrice della grazia»? In nome del bene possibile: il bene effettivamente realizzabile dalla persona. Criterio che fuga la pretesa del tutto o niente. Tra il tutto e il niente ci sono gradi intermedi di bene, da cui ripartire sempre, per un approccio progressivo alla sua interezza. In questo cammino «il discernimento – esorta il Papa – aiuta a trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso i limiti». Chiedere di più è rigorismo etico, che «spegne il lucignolo fumigante» (Mt 15,20) e inficia l’opera della grazia: «Credendo che tutto sia bianco o nero, a volte chiudiamo la via della grazia e della crescita e scoraggiamo percorsi di santificazione che danno gloria a Dio». «Un Pastore, pertanto – è ancora il Papa a dirci – non può sentirsi soddisfatto solo applicando leggi morali a coloro che vivono in situazioni 'irregolari', come se fossero pietre che si lanciano contro la vita delle persone ». «Comprendo coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione. Ma credo sinceramente che Gesù vuole una Chiesa attenta al bene che lo Spirito sparge in mezzo alla fragilità: una Madre che, nel momento stesso in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo, non rinuncia al bene possibile». Una Chiesa insomma che non si lascia irretire dal bene mancante, ma attenta al bene presente, e fiduciosa nel bene raggiungibile.
Teologo moralista, Pontificia Università Lateranense ed editorialista di 'Avvenire'