sabato 24 aprile 2010
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La reazione è stata rapida e terribile nella sua devastante violenza: a pochi giorni di distanza dall’uccisione dei capi di al-Qaeda in Iraq, il terrorismo jihadista ha insanguinato nuovamente Baghdad. Obiettivo prescelto è stata la popolazione sciita, probabilmente nel tentativo di rinfocolare gli scontri settari in un momento politicamente molto delicato. Dopo le elezioni di inizio marzo, infatti, la costruzione del nuovo governo è ancora lontana: la risicata vittoria dell’ex premier laico e nazionalista Iyad Allawi è contestata dal premier uscente Nuri al-Maliki, che rimprovera al rivale di avere accolto nel suo partito terroristi sunniti ed ex seguaci di Saddam. Un’accusa che alimenta le tensioni fra sciiti e sunniti e che offre ampi spazi per chi punta a destabilizzare il nuovo Iraq. La morte di Omar al-Baghdadi e di Ayub al-Masri, i due capi scelti dai vertici storici di al-Qaeda per dirigere le operazioni nel Paese, è un durissimo colpo all’organizzazione terroristica. Con essi, infatti, si era andata definendo una nuova strategia di lotta. Dopo le sconfitte subite nel 2007 e 2008, al-Qaeda aveva abbandonato l’obiettivo di fomentare la guerra civile fra sunniti e sciiti, perseguito nei primi anni sotto la guida del feroce Abu Musab al-Zarqawi; si era invece scelta la via degli attacchi spettacolari contro i luoghi simbolo del nuovo regime, colpendo i principali ministeri e le infrastrutture nel cuore stesso di Baghdad. Attacchi ben coordinati che devastavano la città e uccidevano un gran numero di civili, mostrando a un tempo la preparazione militare dei gruppi della guerriglia e le falle nei dispositivi di sicurezza predisposti dal governo. Nello stesso tempo, le milizie jihadiste hanno in questi ultimi anni cercato di rafforzarsi nella provincia di Ninive, al confine con la regione autonoma del Kurdistan: un’area chiave, che vede una forte presenza sunnita, oltre che di varie minoranze, fra cui l’antichissima comunità cristiana. È in queste zone che si è rinsaldata l’alleanza tattica fra sostenitori dell’ex dittatore e i fondamentalisti, facendo della provincia una roccaforte di al-Qaeda, come testimoniato dai continui attacchi subiti dalla popolazione cristiana, bersaglio privilegiato della follia terrorista. Con la scomparsa di al-Baghdadi e di al-Masri si può forse inaugurare una nuova strategia di lotta, sempre che gli estremisti islamici riescano a ricreare rapidamente una leadership politica e militare capace di coordinare le cellule attive nel Paese. Per prevenire tutto ciò, e per sfruttare al meglio la decapitazione dei vertici jihadisti, il sistema politico iracheno avrebbe dovuto farsi trovare pronto. Al contrario, a un mese e mezzo dalle elezioni nazionali, il nuovo governo sembra poco più di un miraggio illusorio. Le accuse di brogli e i lenti riconteggi dei voti quasi imposti dal premier al-Maliki paralizzano le trattative politiche; quel che è peggio creano spazi crescenti di contrapposizione etno-settaria che rischiano di minare la faticosa opera di ricostruzione istituzionale e militare dell’Iraq. Gli attentati di ieri, diretti contro la maggioranza sciita, rischiano in questo caso di essere devastanti anche politicamente: possono irrigidire gli sciiti contro svariati candidati sunniti che risultano eletti, ma il cui status non è definitivamente riconosciuto. Se la loro elezione dovesse essere annullata, si rinfiammerebbero le tensioni con la minoranza sunnita e si indebolirebbe il partito di Allawi; le conseguenze sarebbero imprevedibili, proprio mentre Washington si prepara a una nuova riduzione di truppe. Per al-Qaeda sarebbe questo il successo strategicamente più importante.
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