Un santo non è un divo. Un santo non somiglia a un uomo di successo. I cristiani lo sanno. E sanno che c’è una bella differenza tra il successo nelle cose del mondo, e quello nelle cose del cielo. Che poi sono quelle della terra ma vissute, per così dire, in modo centuplicato, in modo più vero. In modo senza fine. Perché è scritto così nel Vangelo. Ed è scritto nella vita di tutti i santi, quelli noti e quelli meno noti. Gente che ha vissuto nel mondo. Come se non finisse tutto nel mondo. Gente che ha sperimentato e fatto vedere agli altri l’infinito nelle cose finite. Il cielo dentro la terra, il centuplo quaggiù, che è una ricchezza di senso. Una ricchezza incalcolabile.La beatificazione, domani, di Giovanni Paolo II non è l’apoteosi di un divo. Anche se certe apparenze, anche se certe parole enfatiche – usate spesso da chi non sa cos’è il cristianesimo – vorrebbero farlo credere. Come se fosse un divo dei nostri tempi. Che si può esaltare (o criticare) come un divo, secondo le categorie dell’uomo di successo a partire dai canoni, dalle idee che oggi prevalgono per decretare il successo di un uomo. Il divo, come insegnano l’arte e la letteratura dell’umanesimo e del rinascimento che riprendevano ideali pre-cristiani o anticristiani, è l’uomo che cerca compimento nel somigliare a un dio. Allargando il suo potere, provando a determinare la propria fortuna in tutto e per tutto. Il divo è chi sembra possedere il proprio destino. L’uomo che in fondo non ha bisogno di Dio, poiché basta a se stesso: la fama acquistata con le imprese che l’epoca ritiene degne di gloria e il potere che ne consegue sono la sua realizzazione.Il santo è tutta un’altra faccenda. Una faccenda di cielo mischiato alla terra. Spesso di nessuna riuscita, nessuna fama. Sono santi uomini oscurissimi, di nessuna notorietà pubblica. O, come nel caso di Giovanni Paolo II, è una faccenda che riguarda ciò che è noto e ciò che è segreto nella vita di un uomo. Ciò che è stato visibile alle folle e ciò che è stato visibile a pochi testimoni o solo a Dio. Non c’entra la fama. C’entra la croce. Non si fonda sul successo, ma sul sacrificio di sé. E sull’amore a Cristo. Tutte cose – specie l’ultima – che non sono necessarie, anzi non sono proprio richieste, per essere divi dei nostri giorni. I divi odierni sono spesso ammantati di aura morale. Oggi va di moda l’uomo 'buono' o meglio 'corretto'. E in un certo senso è un bene, anche se spesso si tratta di una morale tagliata su misura sui valori esaltati dai media e delle classi al potere. E i media e le classi al potere sono disposti forse ad accettare Giovanni Paolo II come un divo, ma non del tutto. Perché non sta del tutto dentro la immagine di divo comune. Ha certe cose che non tornano. Che sono poi le cose che lo fanno santo. Le classi dominanti – ma diciamolo: la mentalità che domina anche in noi – è disposta a esaltarlo come divo, ma parzialmente. E di più: vorrebbero che la santità coincidesse con il loro rilascio di patente di divo. Che il divo coincidesse con il santo. E dunque che se qualcosa non funziona nell’immagine del divo, allora si deve mettere in discussione anche la realtà del santo. Ma i cristiani lo sanno: non sono per nulla la stessa cosa.A Roma ci recheremo in tanti a festeggiare un uomo speciale, a pregarlo. Un uomo vivo e operante nella santità dei secoli dei secoli. Non a esaltare un divo morto. Guarderemo un uomo santo come a un esempio per le nostre pene e ferite. E per il nostro amore a Cristo. Non invidieremo acidamente la sua fuggente fortuna – come accade coi divi – ma gli affideremo dolcemente la nostra povera esistenza, deponendola ai piedi della sua paternità senza fine.