I fatti: dalla Florida un oscuro e discusso predicatore lancia, con l’avvicinarsi dell’11 settembre, la sua insensata provocazione. «Brucerò il Corano in piazza». È il suo modo di ribellarsi – fa sapere lui – al progetto di costruire una moschea a
Ground Zero, cuore dell’America ferita dal peggiore terrorismo. La cosa potrebbe finire lì o quasi, visto il peso apparentemente insignificante del minaccioso protagonista. Invece l’eco di quelle parole comincia a risuonare, mette in moto il tritacarne dell’informazione ed esplode in un tam-tam assordante. S’ingigantisce e s’aggroviglia una perversa spirale che ancora oggi – una settimana dopo – pare stringere mezzo mondo. È costretto a intervenire il presidente Barack Obama, si muove l’Interpol e lancia un «allarme globale» sulla possibilità di attacchi violenti come rappresaglia all’iniziativa del pastore, lancia segnali il Dipartimento di Stato. Nel mondo del fondamentalismo islamico c’è chi, in perenne agguato alla ricerca di appigli propagandistici, gongola e si prepara... In Afghanistan già si manifesta contro quelle «minacce». E c’è una prima vittima. A Copenaghen, nel Paese dove esplose il caso delle «vignette anti-Maometto», c’è il misterioso tentativo d’attentato di un kamikaze.Quasi un terremoto, mentre quell’oscuro e discusso predicatore continua il suo gioco pericoloso. Dice che brucia, o forse no, e comunque se brucerà non è adesso. Non molla la presa: s’accorge che, 9 anni dopo, è diventato lui il protagonista planetario – isolato o quasi, ma pur sempre protagonista – del giorno più cupo dell’immensa nazione americana. Con un paradossale e atroce rischio, farsi prigioniero delle sue stesse minacce: l’ho detto, tutti ne parlano, devo farlo, lo faccio.La domanda: come è accaduto che quelle parole si siano gonfiate giorno dopo giorno fino ad esplodere in tensioni planetarie? Quale meccanismo ha trasformato uno sconosciuto personaggio della profonda America in una sorta di bomba atomica a gittata mondiale?Non è davvero la prima volta che simili interrogativi investono – meglio: travolgono – chi fa informazione per mestiere. Dagli angosciosi dubbi sui proclami brigatisti durante gli anni di piombo (pubblicarli, non pubblicarli?) a quelli sulle immagini delle violenze nel carcere iracheno di Abu Ghraib – tanto per citare due esempi su misura dei meno e dei più giovani – è stata una catena di tormenti: far da grancassa con occhi e orecchie chiusi, nel nome di una sconfinata libertà di stampa, oppure scegliere la via di un’assennata «rilettura» che qualcuno potrebbe anche chiamare «autocensura»? Puntare sui «diritti» di chi scrive parole e trasmette immagini o sui «doveri» legati a esigenze di sicurezza e pace? Buttarsi sempre a piedi uniti oppure di tanto in tanto ritrarsi e rifiutare la logica del clamore insensato e rischioso?Dubbi che si ripresentano a fasi alterne e che oggi tornano a interrogare opinioni pubbliche e media. E stavolta in modo non solo accademico: negli Stati Uniti – esempio significativo – una delle maggiori agenzie di stampa, l’
Associated Press, ha già avvertito che non diffonderà immagini o descrizioni dettagliate anche nel caso in cui il pastore Jones arrivi fino in fondo. E il direttore del
New York Times rincara:«Libertà di stampa è anche libertà di non pubblicare». Il caso dell’oscuro pastore Jones potrebbe insomma aprire un varco finora quasi inesplorato, fissando paletti ai quali – almeno nei casi di particolari emergenze – l’informazione potrebbe ancorarsi.Con una speranza e un auspicio. La speranza: che il temuto ultimo atto di questa brutta storia non sia mai da raccontare e che il pastore Jones se ne torni nella sua oscurità. L’auspicio: che nessuno pensi di poter andare oltre al doveroso «autocontrollo» dei media.