sabato 26 novembre 2011
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È una di quelle persone che riescono a incutere timore e dalle quali si prendono volentieri le distanze. Non sorride quasi mai e ha uno sguardo tagliente e freddo come il ghiaccio. La vita con lui è sempre stata avara e ingrata. Ha dovuto imparare fin da bambino a difendersi e lottare. Sulla sua giovane pelle si sono accumulate colpe mai commesse. Un bagaglio antico, una triste eredità di miserie e di peccati. Poi, cresciuto, anche lui ha dato il suo contributo per rendere meno bello e ospitale il mondo. Fu acciuffato. I piccoli scugnizzi cadono facilmente nella rete. Giosuè, lo chiamerò così, si smarrì presto. Aveva imparato a fare le stesse cose che facevano coloro che gli giravano intorno. L’unica cosa che si impara quando si ha la strada per maestra. Il carcere, con le sue fauci inutili e crudeli, sottrasse il ragazzo al vivere civile e lo ingoiò. Rimase dentro parecchi anni. È tornato in libertà dopo aver pagato fino all’ultimo spicciolo il suo debito con la giustizia. Avevo avuto modo di conoscerlo, prima che fosse riacciuffato per vecchi precedenti, e avevo intuito che dietro quella scorza impenetrabile si nascondeva un animo fragile e insicuro. Nella sua vita tutto è stato provvisorio. Non ha mai potuto contare su niente di stabile e sicuro, a cominciare dagli affetti. Aveva imparato presto a scappare alla vista di poliziotti e carabinieri. Gli avevano insegnato che da quella gente era bene tenersi a debita distanza. Le istituzioni, da chi vive di imbrogli e sotterfugi, non sono mai avvertite amiche. Giovani soli, dunque. Terribilmente soli nella lotta per la sopravvivenza. Vivono ai margini di una società che, giustamente, li teme e da essi si difende. Sentono di essere rigettati e decidono di dichiarare guerra al mondo. Una guerra che, lo sanno bene, non vinceranno mai, pur riportando qualche sporadica vittoria. Lo sanno, ma non riescono a fare altro. Occorre che la nostra civile società se ne faccia una ragione: finché non deciderà di farsene carico e di prendersene seriamente cura, dovrà sempre pagare un prezzo per averli lasciati indietro. Dal mio angolo di osservazione, li vedo come immersi in uno stagno di sabbie mobili, dove più si agitano per mettersi in salvo, più vengono ingoiati e affogano. C’è bisogno – un bisogno urgente – che una mano amica li afferri e, risolutamente, li aiuti a tirarsi fuori. Una mano disposta a sporcarsi e ferirsi. Una mano pronta a fare strada a questi poveri e che arrivi prima che abbiano deciso di indurire volto e cuore. Perché è nel momento in cui si convincono che il mondo non appartiene anche a loro, che cominciano a fare scelte pericolose. È allora che una forza cieca li trascina verso l’abisso. Una forza troppo grande per le loro forze per pensare di opporle resistenza. E si lasciano andare. Rassegnati e smaliziati guardano arrabbiati il mondo che a sua volta, preoccupato, li tiene d’occhio. Ognuno dalla sua postazione difende con le unghie il proprio territorio. Rivali, quindi, non fratelli, pur sapendo di essere chiamati da Dio, dalla propria coscienza e anche da un minimo di furbizia, a insistere pur di camminare insieme. Magari rallentando, noi, un tantino il passo. Giosuè è tornato in libertà in questi giorni. Fuori non c’era nessuno ad attenderlo. L’ho rivisto l’altra sera e ho provato una grande gioia. Gli sono corso incontro e, vincendo l’imbarazzo, l’ho accolto con un caloroso abbraccio felicitandomi per la sua ritrovata libertà: «Bentornato Giò, bentornato alla vita…». Il giovanotto dal volto duro e dallo sguardo tagliente e freddo come il ghiaccio mi ha fissato a lungo senza parlare. Poi, facendo violenza al suo carattere chiuso e sospettoso, incredulo e stupito, è riuscito a farfugliare: «È la prima volta. Come è bello, padre. È la prima volta che ricevo un abbraccio da qualcuno che mi vuole bene…».
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