lunedì 2 febbraio 2015
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Le primule vendute davanti alle chiese, i palloncini verdi per i bambini, i volontari a raccogliere firme, donativi, vestitini... C’è tutta una bella tradizione da rispettare in questa prima domenica di febbraio nella quale per la 37ª volta la Chiesa italiana celebra la Giornata per la vita. E non è solo coreografia. In questi e altri gesti semplici, da festa di paese, che si ripetono stamattina come ogni anno alle porte di tante parrocchie c’è il senso di un radicamento che resta senza sfibrarsi, il riflesso tra i credenti di un sentimento comune sul quale oggi verifichiamo una volta ancora di poter contare. I cattolici non vantano con questo alcun possesso esclusivo, oggi però mandano al Paese un riflesso visibile di quel che la gente porta impresso nel cuore, un amore – una venerazione discreta, ma ferma – per la vita umana in ogni sua manifestazione, verso la quale si sa di non poter sopportare esclusioni o rifiuti.Nessuno è di troppo, se gli italiani sanno ancora farsi commuovere dal bebè abbandonato, dall’anziano privo di tutto, dal naufrago sulle rotte dell’immigrazione che cerca solo di poter sperare come noi, dalla mamma che chiede di poter crescere suo figlio e non vuole mai davvero "scartarlo" anche quando purtroppo lo fa. E vedere che, se si leva il grido di una vita a rischio, ancora si corre a inventarsi un modo per farla sentire protetta ci conferma che il tessuto della nostra comunità civile è sempre saldo, e sa tenere testa a qualunque crisi, con una tenacia il cui segreto è proprio in questa certezza che l’uomo e la donna vengono "prima", sempre. È per questo che perdere inavvertitamente una simile fede, lasciarsi defraudare di una convinzione innata di questa forza in cambio di chiacchiere gabellate per "nuovi diritti", sarebbe imperdonabile. Malgrado ogni apparenza, sappiamo di essere – o almeno di voler essere – «solidali per la vita», come incoraggia a fare il messaggio dei vescovi italiani per questa Giornata: una prossimità della quale gli italiani sono specialisti indiscussi, senza distinzione di estrazioni culturali, e che nessuna "imitazione" di presunti esempi esteri deve farci rigettare quasi il nostro sguardo sensibile e pronto fosse un segno di debolezza in un mondo che non ammette questo genere di lussi. Non si tratta di alzare barricate per difendere un avamposto assediato, ma di rinnovare gesti, iniziative, proposte, parole, per confermare ogni giorno che siamo dalla parte della vita senza sottovalutare nulla e nessuno, perché tutto conta per consolidare la "cultura della vita".Eccola, allora, la risposta indiscutibile a quelle che il Papa ha recentemente definito «colonizzazioni ideologiche» che puntano a smantellare le prime lettere dell’alfabeto umano: la vita e la famiglia. Ricordando ripetutamente l’insegnamento dell’Humanae vitae, Francesco ha additato l’esempio di Paolo VI, «un buon pastore», un «coraggioso», un «profeta» che «mise in guardia le sue pecore dai lupi in arrivo», proteggendo «l’apertura alla vita nella famiglia» dai predicatori dell’equivalenza di ogni idea e qualsiasi scelta, quasi che la vita e il suo contrario, la famiglia e le numerose imitazioni in commercio avessero lo stesso significato. I teorici di questo nichilismo sociale che tutto spiana nel nome della non sindacabilità delle opzioni individuali e che mescola le carte della natura umana – ha spiegato il Papa – «entrano in un popolo con un’idea che non ha niente a che fare col popolo; con gruppi del popolo sì, ma non col popolo, e colonizzano il popolo con un’idea che cambia o vuol cambiare una mentalità o una struttura». Apriamo gli occhi, e facciamoli aprire, allora: c’è tutta un’antropologia in bilico, e alle sue sorti è aggrappato il futuro di tutti.Credere che la vita umana è al fondamento di ciò che ci costituisce come persone e società, e che nulla la precede o la condiziona, è ancora risolutivo. Per sapercene persuasi, oggi, anche primule e palloncini ci sono necessari.
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