Alla fine il generale McChrystal è riuscito a convincere Obama. Nonostante i dubbi di molti democratici e l’ostilità manifesta del vicepresidente Joe Biden (che preferiva il ricorso massiccio alla tecnologia militare rispetto alla fanteria), Washington invierà più di 30mila soldati in aggiunta alle forze già dispiegate in Afghanistan. Era quanto chiedeva il capo di Isaf per evitare il tracollo dello scenario di sicurezza. Una scelta non facile per il presidente, dopo anni di guerre, migliaia di morti e un’opinione pubblica sempre più ostile a questo tipo di missioni. Negli Usa, chi avversa la decisione sottolinea come l’impegno a Kabul ricordi sempre più le dinamiche del Vietnam. Chi l’appoggia preferisce usare il termine che tanta fortuna ha portato in Iraq, ossia Surge, l’aumento massiccio di truppe impiegate sul terreno per sconfiggere gli insorti e i terroristi che avevano precipitato quel Paese nella più totale anarchia. McChrystal per primo si innervosisce quando si tracciano paralleli con Baghdad, ricordando le peculiarità della partita afghana. Ma certamente a Kabul, come è stato per l’Iraq, il rafforzamento del contingente è solo il primo tassello per una soluzione che dipende necessariamente da altri fattori. Il primo è la ripresa di una forte iniziativa politica dell’esecutivo locale e il miglioramento della sua capacità di governo, finora assai scadente. Il secondo tassello è l’'afghanizzazione' del conflitto, vale a dire il sempre maggior coinvolgimento delle forze di sicurezza e di polizia nazionali nella lotta contro i taleban. Al di là della retorica, la verità è che finora la Nato ha risolto il problema di aumentare le forze militari afghane dimezzandone i tempi di addestramento, soluzione che non giova a migliorare le loro capacità operative. L’elemento nuovo è la decisione di affidarsi alle milizie tribali nella lotta agli insorti. L’Isaf pagherà capi tribali pashtun per assicurarsi la loro lealtà e per evitare che finiscano con il sostenere i taleban, i quali a loro volta pagano, e bene, molti dei loro miliziani. Una scelta probabilmente obbligata, ma che contribuirà a rafforzare il controllo tribale sulle province, ridando forza ai tanto detestati signori della guerra che hanno rappresentato – tuttora sono – una delle piaghe peggiori del Paese. Infine, vi è il problema della stabilizzazione del Pakistan, ora comoda retrovia delle forze anti-governative. Ma la decisione di Obama va oltre il quadro di sicurezza locale e coinvolge la credibilità stessa della Nato e della Ue quale soggetto politico. Washington chiede che gli europei aumentino di alcune migliaia di uomini i loro contingenti, nell’ottica della solidarietà atlantica. Paradossalmente, la fine dell’unilateralismo di Bush toglie un comodo alibi al Vecchio Continente: questa decisione non è imposta dagli Usa, ma risulta dalle necessità del campo, ed è condivisa con gli alleati. I quali devono ora dire se intendono o meno sostenere con soldati aggiuntivi lo sforzo multilaterale della Nato. In entrambi i casi, si tratta di scelte non facili: sfidare l’ostilità delle opinioni pubbliche e la crisi economica dicendo di sì all’escalation, oppure minare l’Alleanza Atlantica e la propria credibilità come attori internazionali dicendo di no. In fondo, si sussurra nei circoli militari, quella in Afghanistan è la prima vera guerra – anche se non è chiamata così – combattuta dalla Nato; non possiamo rischiare di perderla, perché rischieremmo di colpire la stessa solidarietà cinquantennale fra i Paesi membri. Dire di sì significherebbe andare incontro ad altri anni di rischi e di vittime, dato che i militari voluti da McChrystal dovranno affrontare a viso aperto le milizie degli insorti. Il pericolo maggiore sarebbe illudersi che nuove truppe non significhino anche nuovi lutti, almeno nel breve periodo. Dire di no, renderebbe forse vani tutti gli sforzi finora profusi in quello sfortunato Paese.