giovedì 25 giugno 2009
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Il dato indica una inversione di tendenza propiziata dalla migliorata consapevolezza che l’infortunio può essere evitato con l’adeguamento alle norme di prudenza. Dal rapporto Inail presentato ieri sappiamo così che i morti sul lavoro sono stati lo scorso anno 1.120, in calo del 7,2 per cento rispetto ai 1.207 dell’anno precedente. Tanti anche questi 1,120, non v’è dubbio. Troppi, se si pensa che la media giornaliera si assesta attorno alle tre morti bianche, il che ci pone leggermente sopra la statistica Ue con 2,9 decessi per 100 mila occupati. In realtà il nostro Paese, pur con lo stillicidio di sciagure nelle fabbriche e nei cantieri, non indossa la maglia nera con i suoi 2.812 infortuni su 100 mila lavoratori (poco meno di 900 mila in cifra assoluta lo scorso anno): l’Europa viaggia a quota 3.469 su 100 mila, sicché siamo messi meglio di Francia, Germania, Spagna. Il fatto è che da noi ci si ferisce di meno ma si muore di più, al di là della decrescita degli eventi mortali che ha contrassegnato il 2008. Le tabelle e i prospetti numerici non devono indurre a minimizzare la gravità del problema della sicurezza sul lavoro. Vero è che per la prima volta dal 1951 – da quando cioè esistono rilevamenti attendibili – le morti bianche sono scese sotto quota 1.200. Altrettanto vero è che dopo il picco del 1963 (4.664 decessi) il trend è in discesa costante, addirittura a due cifre (meno 28 per cento) tra il 2001 e il 2008, ma da qui a cantare vittoria inneggiando all’eradicamento della piaga delle morti di lavoro ce ne corre. L’ottimismo facilone e fuori luogo può produrre guasti insanabili inducendo ad abbassare la guardia. Qualche considerazione allora va fatta. Era purtroppo nella logica aberrante delle cose che qualche decennio addietro il lavoro uccidesse di più. In epoca di completamento della ricostruzione e di boom economico era fatale che certa imprenditoria rapace e senza scrupoli ignorasse le esigenze di incolumità di chi operava in miniera o su una impalcatura. Le normative del resto apparivano blande, lassiste, permissive, mentre gran parte dell’occupazione era assicurata dall’agricoltura (ancora alla fine degli anni Quaranta lavoravano nei campi il 50 per cento degli occupati) e l’agricoltura è tuttora settore a rischio abbastanza elevato, accanto all’edilizia. Con gli anni si sono affinate le tecniche e le strategie di protezione, sono migliorate le leggi, aumentati i controlli, accresciuta la sensibilità oggettiva degli imprenditori e dei lavoratori. Il processo di sindacalizzazione ha dato frutti maturati in parallelo a quelli indotti dall’elevazione del livello culturale di chi svolge le mansioni più umili. Il miglior dato del 2008 è figlio di tutto questo, di un processo lento costato lacrime e sangue che ha fatto perno su ulteriori elementi non trascurabili: il calo dei colletti blu e delle tute delle catene di montaggio e dei ponteggi, la (quasi) scomparsa della classe operaia di un tempo, la crescita dei colletti bianchi degli uffici e degli addetti ai servizi e al terziario. In un ufficio si corrono rischi di gran lunga inferiori a quelli cui si espone chi manovra un crogiolo di acciaio fuso in fonderia. Se una conclusione si può trarre, essa va nella direzione obbligata del consolidamento dell’impegno di tutela e di autotutela, che non deve venire meno. L’Inail segnala anche per il 2009 un calo tendenziale degli infortuni mortali, ma l’imprevisto e imprevedibile sono sempre dietro l’angolo, come insegna la cronaca delle ultime settimane costretta ad occuparsi di tragedie non imputabili alla fatalità. Non sempre addebitabile alla fatalità è poi la morte cosiddetta in itinere, il dramma degli uccisi sulla strada da o per il posto di lavoro, ma qui il discorso si intreccia con quello della sicurezza della circolazione: non ci sarà ulteriore consistente abbattimento delle morti bianche fino a che la strada continuerà ad esigere insopportabili tributi di vite umane.
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