Una parata militare di nuove reclute a Sana'a, in Yemen - ANSA
«Se la comunità internazionale ha a cuore la pace e la sicurezza nel Mar Rosso, deve costringere l’entità sionista (è il modo sprezzante con cui viene chiamato Israele in gran parte del mondo arabo, ndr) a fermare la guerra a Gaza. Con il cessate il fuoco terminerebbe pure l’azione di disturbo alla navigazione davanti alle nostre coste, una misura che non aiuta lo Yemen, né il popolo palestinese». Ne è convinto Nayef Ahmed Al-Qanis, segretario generale aggiunto del Partito arabo socialista Baath (costola dell’omonima formazione politica siriana), che non esita a manifestare il suo aperto dissenso verso le manovre militari nel Golfo di Aden degli alleati di governo, le milizie di Ansar Allah, il movimento sciita zaidita meglio noto come Houthi, che controlla il Nord dello Yemen e la capitale Sana’a. C onsiderato una delle figure più influenti della scena nazionale della Repubblica del Nord, già membro del Comitato rivoluzionario supremo scioltosi nel 2016 per far posto al Consiglio politico supremo (Cps), Al-Qanis è stato dal 2017 al 2021 ambasciatore a Damasco, la seconda sede diplomatica insieme a Teheran del governo di Sana’a. Il suo “Iaa” (“no” in arabo) agli attacchi dei Partigiani di Dio contro le portacontainer in rotta fra Hormuz, il golfo di Aden e Suez, a protezione delle quali si è schierata la missione europea Aspides, è una voce fuori dal coro, che sembrerebbe segnare un cortocircuito nell’esecutivo Houthi.
Nayef Ahmed Al-Qanis - ,
«Il partito Baath è al governo ma non nel Cps, l’organo esecutivo formato da Anasar Allah e guidato da Abdel Malik Al Houthi – chiarisce con cautela il leader baathista -. La mancata rappresentanza di altri partiti politici al suo interno costituisce una grave lacuna, perché implica l’esclusione delle altre formazioni nelle importanti scelte che riguardano il Paese. E anche all’interno del Consiglio politico supremo le decisioni vengono prese solo da una cerchia molto ristretta di persone, tutte appartenenti all’ufficio politico di Ansar Allah. Nel caso di risoluzioni d’interesse nazionale come quella del Mar Rosso, bisogna prendere in considerazione diversi fattori – prosegue - in particolare la situazione interna dello Yemen, divenuto estremamente fragile a causa della guerra, schiacciato da una gravissima crisi economica, sociale e umanitaria. Una decisione così delicata non può essere assunta da una parte sola del popolo yemenita, ma dall’intera collettività, proprio per la sua gravità e per le sue estreme conseguenze».
Quindi, non risparmia bordate a Washington, che guida l’operazione Prosperity Guardian, una coalizione multinazionale partita lo scorso dicembre per rispondere agli attacchi Houthi contro le navi ritenute vicine a Israele. «Stanno militarizzando le nostre acque, che sono strategiche dal punto di vista geopolitico – dichiara - e noi gli abbiamo fornito il pretesto per dare il via alle loro operazioni, prenderne il dominio ed esercitare pressioni su Russia e Cina». Sugli scontri in quell’imbuto marittimo, l’ex ambasciatore illustra anche il prudente silenzio dei Paesi arabi non allineati con l’“asse della resistenza” di Siria, Iraq, Yemen e Libano di Hezbollah, “il figlio prediletto” di Teheran. Non possono dichiararsi contrari perché rischierebbero così di tradire la causa palestinese.
Se il terzo fronte di guerra è stato aperto dal gruppo sciita nello specchio d’acqua antistante le coste yemenite, in solidarietà agli abitanti di Gaza, non va sottaciuto l’impegno di Roma nell’ospitare nei suoi ospedali i bambini palestinesi bisognosi di cure. «Gli aiuti umanitari dell’Italia e il soccorso che sta prestando ai piccoli palestinesi e alle loro madri verranno presi in considerazione da Sana’a – assicura Al-Qanis -. Tra il vostro Paese e lo Yemen esiste un buon rapporto, consolidato negli anni e non credo che cambierà. Prima della guerra, quando le città pullulavano di turisti, molti italiani in visita nella capitale venivano accolti nelle abitazioni degli yemeniti. Ragion per cui auspico che il Cps non metterà in atto le minacce contro le navi italiane. Di certo, assumeranno delle decisioni sul momento, a seconda dell’evolversi della situazione ». Le preoccupazioni di Al-Qanis, sul fronte caldo del Mar Rosso, fanno eco alle dichiarazioni dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per lo Yemen, Hans Grundberg, al Consiglio di Sicurezza il 14 marzo scorso. Gli attacchi, insieme alle ritorsioni da parte di Stati Uniti e Regno Unito, hanno ulteriormente accentuato le tensioni e sollevato preoccupazioni sul potenziale ritorno di un conflitto diffuso, ha affermato Grundberg. «Con più interessi in gioco – aggiunge - è più probabile che le parti in conflitto nello Yemen cambino i calcoli e modifichino i loro programmi negoziali. Nello scenario peggiore le parti potrebbero decidere di impegnarsi in un rischioso avventurismo militare che riporterà lo Yemen in un nuovo ciclo di guerra».
In gioco c’è il destino di 35 milioni di persone, che vivono in un territorio diviso in pezzi da un conflitto che, senza soluzione di continuità, dura da nove anni (anche se ha radici ben più antiche) e che ha fatto del “felice Yemen”, il paese più povero dell’area Mena (che comprende Medio Oriente e Nord Africa). La guerra per procura tra Riad e Teheran, sponsor del governo riconosciuto di Aden la prima e degli Houthi la seconda, le rivalità nell’alleanza anti-Houthi al Sud fra milizie e fazioni sostenute da Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, le divisioni settarie, la presenza della cellula qaedista Aqap, come anche la lotta per le risorse di petrolio e gas, vanificano gli sforzi diplomatici per una tregua nazionale, portati avanti a più riprese da Onu e mediatori omaniti. Non a caso, Hans Grundberg dinanzi agli ambasciatori riuniti al Palazzo di Vetro ha sottolineato «l’importanza del continuo sostegno internazionale e dell’impegno diplomatico per superare le attuali turbolenze regionali e far avanzare il processo di pace nello Yemen».
L’ostilità verso Tel Aviv è condivisa,
A proporre una possibile soluzione per l’addio alle armi, in un Paese dove il dissenso viene messo a tacere con la repressione, tanto al Sud quanto al Nord, è lo stesso leader Baath. «Una riscrittura della Carta costituzionale che rispetti tutte le parti in Yemen, dove a tutti dovrebbe essere concesso il diritto di manifestare le proprie idee politiche. L’unico strumento possibile perché ciò si realizzi è il referendum, cui dovrebbero seguire delle elezioni monitorate dalla comunità internazionale».
Quella dello Yemen è una delle tante guerre dimenticate, che neanche gli scontri nelle acque immediatamente prospicienti il suo territorio sono riusciti a portare all’attenzione dell’agenda politica internazionale. Eppure, in tutti questi anni sono morte oltre 377mila persone, il 60 per cento per gli effetti indiretti del conflitto, come epidemie di colera, scarsità di acqua e cibo, mentre sarebbero circa 150mila gli yemeniti che hanno perso la vita negli scontri armati e nei bombardamenti aerei. Secondo l’Undp, l’Agenzia per lo sviluppo dell’Onu, nel 2021 ogni 9 minuti moriva un bambino di meno di 5 anni. Ed è ancora l’Onu, insieme a numerose associazioni per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty International, a denunciare la permanente impunità di coloro che hanno commesso gravi violazioni contro i civili.
«In nove anni di conflitto – scrive Hrw in un rapporto pubblicato a dicembre - le parti in guerra hanno perpetrato diffuse violazioni del diritto internazionale umanitario e del diritto internazionale sui diritti umani, causando ingenti danni ai civili. Attacchi illegali, compresi eventuali crimini di guerra, contro abitazioni, ospedali, scuole e mercati, sono stati compiuti in alcuni casi in modo deliberato e indiscriminato». Violazioni che sarebbero andate avanti pure durante l’ultima tregua dell’ottobre 2022. Solo un anno prima, il gruppo di eminenti esperti internazionali delle Nazioni Unite per lo Yemen denunciava l’impossibilità per il terzo anno consecutivo di visitare Sana’a e le regioni del governo di Aden riconosciuto dalla comunità internazionale. «Sono assolutamente favorevole all’istituzione di una Commissione internazionale d’inchiesta indipendente, che indaghi sulle violazioni molto gravi dei diritti umani in tutto il mio Paese – concede Al-Qanis -, dove i cittadini a volte vengono uccisi solo per aver espresso la loro opinione».