I tanti partiti che hanno basato sull’attacco all’Europa dell’austerità il loro programma per le elezioni di fine maggio possono contare su di un alleato involontario: l’Eurostat. L’istituto di statistica europea è un’efficiente fabbrica di cifre che si rivelano molto preziose per chi intende dimostrare, con tanti numeri e un’abbondante dose di semplificazione, che questa Europa, così com’è, fa star male tutti tranne che i tedeschi.Un paio di settimane fa l’ufficio statistico di Bruxelles ha prodotto un rapporto sulla disoccupazione delle regioni europee. Diceva che l’Alta Baviera, con un tasso di disoccupazione al 2,6%, è la regione con più lavoro d’Europa. La seguivano, nelle prime dieci posizioni, tre regioni austriache ed altre cinque regioni tedesche. La bella Andalusia, spiegava il rapporto, è invece la regione con il più alto tasso di disoccupazione: siamo al 36,3%. A farle compagnia, nelle ultime dieci posizioni della classifica, altre sei regioni spagnole, due greche e una francese (anche se quest’ultima è davvero poco "europea", dal momento che si tratta dell’isola di Riunione, colonia parigina al largo del Madagascar). Il gioco, agli euroscettici, viene facile: questa è l’Europa della Merkel, quella in cui la quota di disoccupati andalusa è quattordici volte quella bavarese.
Quando il 15 maggio, cioè a dieci giorni dal voto, gli impiegati dell’ufficio di statistica metteranno on line la loro stima preliminare sulla crescita del Pil della zona euro nel primo trimestre del 2014, ecco che un’altra folata potente potrà gonfiare le vele dei partiti anti-Europa. Se le previsioni degli analisti saranno confermate la "crescita" del Pil dell’eurozona tra gennaio e marzo è stata dello 0,4%. Un risultato sostanzialmente penoso. Oppure basta citare i quattro milioni di nuovi disoccupati che sono spuntati nella zona euro tra le passate elezioni e quelle di maggio (la fonte è ancora l’Eurostat, i disoccupati della moneta unica oggi sono 19 milioni) per indebolire qualsiasi discorso sulla "ripresa" europea.I numeri dell’economia "reale" di oggi, impossibile negarlo, non sono certamente dalla parte della Commissione europea e di chi politicamente si è impegnato nel dettare la linea al Vecchio continente. Quello che Bruxelles e i suoi sostenitori hanno a disposizione per difendersi è il concetto, poco affascinante, del "buon lavoro fatto". E qui ci si porta su un piano più complicato e oggettivamente difficile da "vendere" in campagna elettorale. Forse una crisi più blanda avrebbe consentito alle istituzioni comunitarie di comportarsi come altre grandi organizzazioni in cui convivono troppi interessi diversi: i funzionari e i politici di Bruxelles avrebbero cioè potuto dedicarsi a negoziati e trattative tanto lunghi quanto inconcludenti. Invece la situazione era abbastanza grave da esigere decisioni veloci e "vere". L’Ue ha dimostrato di saperle prendere.
Nell’Europa che si presenta alle urne nel 2014 ci sono novità politiche e monetarie significative e a loro modo impensabili ai tempi delle elezioni del 2009. Sono novità complicate e dai nomi davvero poco amichevoli – tipo Fiscal Compact, Ltro o Unione bancaria – ma hanno reso l’Europa migliore: più integrata e più curabile. L’Unione europea di oggi è fatta di governi che dimostrano di essere davvero capaci di tenere sotto controllo i loro bilanci. A meno che non si creda che per un paese sia un’abitudine positiva quella di indebitarsi sempre di più a prescindere dai risultati a livello di crescita economica, non si può non apprezzare il taglio dei deficit di bilancio operato dai governi. Cinque anni fa le 17 economie della zona euro (oggi sono 18) cumulavano tutte assieme un passivo di bilancio da 570 miliardi di euro, una cifra pari al 6,9% del loro Pil. Nel 2013 il valore assoluto dei deficit si è quasi dimezzato, a 292 miliardi, e il rapporto tra il deficit e il Pil della zona euro è tornato al 3%, rientrando emblematicamente nei parametri di Maastricht. L’epoca in cui i governi si rincorrevano nella costruzione di debiti pubblici mastodontici a scopo quasi esclusivamente elettorale – pratica in cui l’Italia è stata maestra – è passata.
È passato anche il tempo in cui una banca europea poteva gonfiarsi fino a raggiungere, senza incontrare molti ostacoli, una dimensione tale da costringere il "suo" governo a salvarla usando i soldi dei contribuenti. Il 15 aprile il Parlamento europeo ha dato il via libera al meccanismo unico di risoluzione delle crisi degli istituti di credito. È il secondo pilastro dell’Unione bancaria. Il primo è la supervisione unica affidata alla Banca centrale europea, approvata a ottobre 2013. Da marzo è iniziata la revisione dei bilanci delle banche che prepara gli stress test del prossimo autunno. Le nuove regole europee hanno creato un ambiente in cui le banche sono obbligate ad essere più solide e più prudenti. Non è solo una questione tecnica: la crisi ha mostrato all’Europa che, se messo alla prova, il suo sistema del credito poteva bloccarsi tra sfiducie e fallimenti. È successo davvero. A fine 2011 tante banche europee non si scambiavano denaro nemmeno sul mercato overnight: significa che non si fidavano a concedersi prestiti che durassero solo una notte. Se le banche si bloccano si ferma il credito verso le imprese e le famiglie e l’intera economia si arena. L’Unione bancaria non è uno scudo imbattibile contro il tilt da panico del sistema bancario, ma sicuramente è una cura potente.
Vale per le banche ma vale anche per l’euro. Messa alla prova dai "mercati", la moneta unica ha rischiato davvero di saltare per aria. Dai primi scricchiolii greci in avanti (era l’autunno del 2009) gli investitori hanno voluto vedere fino a che punto i governi della zona euro sarebbero stati disposti a farsi reciprocamente da garanti sui loro debiti. Debiti "piccoli" come quello greco, irlandese o portoghese, ma anche debiti colossali, come quello italiano. Questo "test" ha spinto verso vette spaventose i tassi di interesse sui titoli dei cosiddetti Pigs, ha reso indispensabile il salvataggio di chi proprio non poteva farcela da solo e ha costretto i paesi dell’Unione ad aprire ripetutamente i portafogli per gestire le emergenze. Oggi il fantasma dello "spread" che terrorizzava l’Europa è un altra figura che inizia ad appartenere al passato. Le distanze tra i rendimenti dei titoli della periferia europea e quelli dei bund tedeschi sono crollate. Il 15 dicembre scorso l’Irlanda è uscita dal piano di salvataggio. Il Portogallo la seguirà a breve. La Grecia, Paese simbolo della crisi, un mese fa è tornata a finanziarsi direttamente sui mercati.
Lo spread è stato sconfitto quando Mario Draghi ha promesso che la Banca centrale europea avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell’Unione monetaria. Quella frase, scandita con aria teatrale dal banchiere italiano dal podio di una conferenza degli investitori a Londra, il 26 luglio 2012, ha aperto la porta di uscita dalla crisi dell’euro. Draghi ha chiarito che la Bce ha abbastanza libertà da potersi permettere di gestire – anche da sola – la crisi della moneta unica. È stato un passaggio decisivo nel percorso che ha portato la Banca centrale europea, in questi anni, a emanciparsi gradualmente da rigorismo imposto dai tedeschi. Questo percorso l’ha portata, nelle ultime settimane, ad aprirsi in maniera sempre più esplicita alla possibilità di lanciare il suo quantitative easing, cioè di stampare moneta per incrementare la quantità di denaro in circolazione solo per tirare fuori le economie più deboli della zona euro dalla deflazione, quella situazione economicamente distruttiva in cui i prezzi continuano a diminuire e i consumatori continuano a tagliare gli acquisti.Se i numeri della crescita e della disoccupazione possono dare l’immagine di un’Europa sempre più malmessa, divisa e disperata che ha un bisogno immediato di cambiare rotta, i fatti – o, meglio, le decisioni prese – degli ultimi anni possono essere esibiti come i risultati di un’Unione già compatta e determinata ad andare avanti nel curare i mali che ha scoperto di soffrire. Numeri contro fatti. È anche questa la battaglia che da qui a fine maggio si combatterà in questo Vecchio Continente.