domenica 2 marzo 2025
Il senso di impotenza davanti a troppi orrori, l’impressione di un fallimento personale e generazionale, sfidati dal messaggio giubilare
Le croci a disposizione dei gruppi che varcano la Porta Santa di San Pietro

Le croci a disposizione dei gruppi che varcano la Porta Santa di San Pietro - Agenzia Romano Siciliani

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Nelle domeniche dell’Anno Santo “Avvenire” ospita voci credenti e laiche per offrire spunti di riflessione a partire da domande ispirate dalla Bolla di indizione del Giubileo. Qual è, oggi, la speranza che “non delude”? Quali speranze nutrono il nostro sguardo sul futuro? Su quali fondamenta edifichiamo i progetti della vita, le attese, i sogni? E la società, a che speranza collettiva attinge?

Quando mi è stato chiesto se ero interessata a partecipare a questo ciclo di interventi, suscitati dall’appello giubilare del Papa, mi sono trovata ad accettare di slancio, senza troppo starci a pensare su. Solo dopo mi sono domandata perché il richiamo alla “speranza che non delude” avesse trovato in me questa immediata risonanza. Inaspettata ma per certi versi non sorprendente. Sono anni che ascolto con orecchio attento la vox clamans di papa Francesco che ci implora di reagire di fronte a un mondo preda di una guerra “a pezzi “che sempre più stanno ricomponendosi in un unico quadro. Un mondo storpiato da contrasti feroci, da diseguaglianze stellari, dal disprezzo per i più deboli, dall’assuefazione allo sterminio di migliaia di innocenti, bambini, donne, povera gente scomparsa nei deserti, nei mari o sotto montagne di bombe. Da tempo coltivo scambi con amiche e amici credenti, uniti dalla domanda su che fare, trovando anche in questo giornale spazio di ospitalità e dialogo su alcuni temi che mi stanno a cuore. Quindi nulla di sorprendente in apparenza, l’inatteso stava nella sollecitazione che ho improvvisamente sentito a scavare più a fondo, a chiedermi con più acutezza: perché la speranza che non delude può non deludere anche me che non sono credente? Che non mi sento una pellegrina che sa di stare nel mondo ma di non essere di questo mondo? Che non gode della grazia di affidarsi all’apertura all’Altro e di confidare nel suo aiuto e misericordia?

La forza che ho sentito sprigionarsi da quel richiamo alla speranza che non delude era racchiusa nelle parole trovate da papa Bergoglio di far rivivere l’essenza assolutamente peculiare del messaggio cristiano: una fede che mentre si nutre della promessa di salvezza dalla morte si radica pienamente e compiutamente nella vicenda terrena e storica dell’umanità. Il Cristo è uomo, morto sulla croce, e la speranza di cui ci parla è la speranza nella vita, è la speranza nella nostra comune umanità, in noi donne e uomini qui e ora. È un messaggio volto a sconfiggere il sentimento dell’impotenza e della rassegnazione. E questo messaggio e queste parole parlano a me, una donna che si avvicina agli ottant’anni, che ha vissuto e partecipato con grande passione agli imponenti movimenti di libertà ed emancipazione che hanno segnato i gloriosi Trenta del secolo scorso (1945-75), che ha aderito al comunismo, a quella specie del tutto originale che è stato il comunismo italiano. Che coltiva l’idea di un mondo fatto da donne e uomini pari ma differenti, di un mondo a misura del due e non più dell’uno e che perciò era ed è convinta che la tendenziale unificazione del genere umano, nel rispetto delle differenze, sia possibile. Che la pace possa essere di questo mondo. Ma proprio per questo, dinanzi agli orrori che vede ogni giorno scorrere sotto i suoi occhi, ai silenzi, alla inazione, alla fatuità sente crescere il sentimento dell’impotenza insieme a quello del fallimento non solo personale ma generazionale. L’appello alla “speranza che non delude” chiama a mutare prospettiva, a non sentirsi schiacciati dalla dismisura tra la propria miserevole pochezza e l’enormità di un mondo in fiamme che ci sovrasta. Richiama alla fiducia nella nostra umanità, un’umanità degna del Cristo, e a non smarrire il senso di una storia.

Non l’ho perciò percepita come una chiamata volontaristica, astratta, al dovere di reagire ma come un’interrogazione a ricercare in me stessa, in quello che sono, che penso, che sento, le ragioni per ricominciare, cioè a cominciare segnando uno scarto, anche minimo, dal filo della continuità. E allora mi sono chiesta come concretizzare l’appello giubilare a sfidare le pigrizie mentali. Forse ritornando su cammini già percorsi – senza lasciarsi scoraggiare da voci innanzitutto interne che sussurrano “non c’è più niente da fare” – operando quello scarto, provando a vedere dove portano questi pensieri espressi nella forma che più mi è congeniale. Sicuramente verso l’aspirazione a superare i modi ormai infecondi in cui sono stati sistemati i rapporti tra cattolici e non credenti, rapporti pensati nella forma del dialogo tra culture un tempo avversarie e poi amiche ma non ancora cooperanti nel dar vita a una indispensabile nuova cultura. Converrebbe allora riprendere alcune questioni di fondo, accantonate o date per scontate, innanzitutto quella dei confini fissati nel Novecento tra immanenza e trascendenza e del confronto/scontro che si è allora consumato intorno all’integrale secolarizzazione o meno del principio di salvezza.

La trascendenza ha che fare con la promessa della salvezza del singolo e della comunità, con la promessa della redenzione dal male, dal bisogno, dalla sofferenza e anche dalla morte che il messaggio cristiano ha trasmesso alla nostra civiltà segnandola in profondità. Tanto in profondità che con Rousseau la dialettica del male e della sua redenzione è stata trasferita nella storia. Il male, avendo una radice, una genesi storica (il “peccato originale” della nascita della proprietà privata che toglie libertà e uguaglianza e impedisce l’unità del genere umano), può essere vinto sul piano dell’immanenza storica. La cultura marxista, permeata dall’idea che la religione sia alienazione nell’Altro delle potenze e aspirazioni umane, ha radicalizzato, con la tensione utopica verso il comunismo, l’immanenza alimentando l’aspettativa che l’unificazione del genere umano e la vittoria sul male siano possibili con l’abolizione delle classi.

Che ne è oggi di questo conflitto, dato il profondo cambiamento dei termini che lo hanno alimentato? La crisi e il tramonto dell’idea di comunismo quale immanenza assoluta ha modificato la visione della storia permeandola di una acuta “coscienza del limite”, ma riducendo nello stesso tempo le difese contro gli assalti di potenze che mirano solo a coltivare il singolarismo utilitario. D’altra parte il riconoscimento e l’accettazione da parte del cattolicesimo del pluralismo democratico e della moderna soggettività hanno consentito relazioni, scambi con la mondanità “laica” un tempo impensabili, ma con una sorta di riduzione di intensità che tende a riflettersi nel restringimento della dimensione religiosa nella sfera privata. Come si riconfigura allora l’appello alla trascendenza? C’è poi l’urgenza di ripensare insieme con maggiore lucidità storica il nucleo originario su cui è germinata l’idea dell’Europa del dopo la catastrofe di due guerre mondiali, l’Europa del “mai più guerra tra gli Stati del continente”.

La mia generazione ha coltivato con slancio etico e politico l’idea europeista, facendo leva su quell’embrione di comunità politica che aveva deciso di costituirsi sulla pace e non sulla guerra, appellandosi al dialogo e alla cooperazione e non al conflitto e alla competizione. Abbiamo così parlato di Europa “potenza civile” modello ed esempio per altri popoli e Stati nel mondo. La fragilità di quella idea e di quella costruzione si è drammaticamente rivelata con la ricomparsa della guerra nei suoi confini e la brutale presa d’atto che l’Europa è Europa – e non l’appendice di un Occidente che si estende dall’Atlantico al Pacifico– se respira con due polmoni a Ovest e Est e se acquista pienamente coscienza di sé, di essere cioè la portatrice di una concezione della politica fondata sulla pace indispensabile al mondo. Giustamente lo sguardo e la voce della Chiesa di Roma hanno l’ampiezza della cattolicità, si rivolgono al mondo intero, e in particolare alle sue periferie travagliate da enormi sofferenze. Ma se il centro della Cristianità, se l’Europa non ritrova sé stessa e il suo ruolo di pace, anche la missione mondiale della Chiesa ne sarebbe infragilita.

Infine vorrei solo accennare alla rivoluzione delle donne che ha sconvolto e continua a sconvolgere le fondamenta su cui si sono costruite le società moderne, alimentando feroci, spietati sforzi di reazione (in Afghanistan e in Iran, certo, ma anche in Occidente si coltivano allarmanti propositi). La loro liberazione da vincoli di sudditanza e oppressione rende finalmente realistico sul piano storico il messaggio di Paolo “né giudei né gentili, né schiavi né liberi né uomini né donne”. Ma come intendere e tradurre effettualmente quel “né uomini né donne”? L’avvento dell’eguaglianza ha aperto una gigantesca questione “antropologica” che interroga donne e uomini credenti e non credenti. Vorrei concludere augurando, con tutto il mio cuore, a papa Bergoglio di ristabilirsi presto e di tornare, con rinnovata energia, a sollecitare il mondo e noi tutti alla pace e alla speranza.

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