Il rinvio delle elezioni presidenziali, previste a maggio e ora fissate ad agosto per problemi di sicurezza e organizzativi, è soltanto l’ultimo segnale delle crescenti difficoltà in Afghanistan. E del peggioramento dei rapporti fra il presidente Hamid Karzai e gli Stati Uniti. Nel dicembre 2001, Karzai era stato scelto da Washington come l’uomo giusto per compiere la transizione dal regime dei taleban a un nuovo Afghanistan, moderato, democratico e amico dell’Occidente. Un percorso non facile, ma sul quale si erano impegnati gli Usa e l’intera comunità internazionale, con la Nato divenuta negli anni il braccio armato per combattere i gruppi di taleban ancora attivi e sostenere la stabilizzazione del governo di Kabul. La difficile scommessa, purtroppo, non è stata ancora vinta, e da tempo la situazione nella regione appare estremamente problematica. Come sempre in questi casi, i vari attori si scambiano accuse reciproche. L’Occidente contesta al governo – sempre meno velatamente – di aver deluso le attese, reggendo il Paese in modo corrotto e inefficiente, dissipando i fondi internazionali senza dare esito alla ricostruzione, mostrandosi incapace di pacificare i rapporti fra le varie comunità etniche e religiose e di promuovere la democrazia. Infine, il traffico di droga è tornato a crescere senza opposizioni, riportando l’Afghanistan a essere il maggiore produttore mondiale di oppio. Tutte imputazioni senza dubbio fondate. Da parte sua, Karzai sottolinea la disattenzione statunitense e internazionale verso il Paese – soprattutto dopo l’invasione del-l’Iraq nel 2003 –, lo scarso impegno finanziario per la ripresa economica e i fallimenti militari di Washington e della Nato nel combattere i risorgenti taleban. È questo un punto di contrasto crescente. Nei giorni scorsi, il presidente ha inaugurato la sessione invernale del Parlamento con un attacco senza precedenti alla strategia occidentale, incolpando l’Alleanza atlantica di fare troppe vittime civili – senza peraltro sconfiggere i comuni nemici – e di condurre le operazioni bypassando il suo governo. Kabul vuole anche negoziare un nuovo accordo con la Nato, in modo da limitarne l’autonomia operativa, in particolare nel dispiegamento delle forze militari sul terreno. Per molti si tratta di un chiaro avviso agli Stati Uniti: i vertici afghani sono scettici rispetto al cosiddetto Surge, l’aumento di truppe combattenti americane in Afghanistan: una strategia mutuata dall’Iraq su cui punta Barack Obama per battere la guerriglia di matrice islamica. Karzai vorrebbe che i nuovi soldati occidentali fossero destinati a sigillare la porosa frontiera con il Pakistan, Paese in cui spesso i taleban trovano rifugio. Ma questa mossa inasprirebbe ancor più le tensioni con il governo di Islamabad, preoccupato dalla politica di Kabul e ancor più dagli stretti legami che quel governo sta stringendo con l’India, nemico storico del Pakistan. Certo è che le perplessità di Karzai imbarazzano e irritano Washington, oltre a rafforzare le voci di quei Paesi Nato – come Francia e Germania – che sembrano voler puntare su una soluzione 'politica' più che militare al conflitto con i taleban. Di qui il sospetto crescente che l’attuale presidente non sia più l’uomo giusto per l’Afghanistan e la sua permanenza al potere risulti ormai controproducente per gli obiettivi di ricostruzione e stabilizzazione. Tuttavia, non sembrano esistere molte alternative credibili da proporre all’opinione pubblica internazionale, né altri uomini politici capaci di gestire un esecutivo espressione di fragili equilibri di potere inter-tribali e inter-etnici. Abbandonare Karzai potrebbe inoltre essere percepito come l’ennesimo fallimento delle politiche di Washington in Medio Oriente. Soprattutto, il presidente non ha alcuna intenzione di lasciare il potere e intende lottare per venire rieletto. Sa bene di essere meno amato e stimato di un tempo, ma è convinto di rimanere necessario.