Tanto più i funzionari della Casa Bianca si affannano a sottolineare l’accordo e la condivisione raggiunti nel summit di Camp David di metà maggio fra Obama e le monarchie arabe del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), quanto più invece cresce la preoccupazione generale. Né sono suonati davvero convincenti gli impegni presi dagli Stati Uniti nel continuare a garantire la sicurezza degli sceicchi petroliferi. A parlare sono state soprattutto le troppe assenze alla riunione fortemente voluta da Washington, ma disertata da quattro dei sei capi di Stato del Gcc (re Salman dell’Arabia Saudita fra tutti). La sensazione è quella di un forte scollamento, ovviamente causato dai negoziati nucleari con l’Iran, ma che in realtà ha radici più profonde. L’idea di un accordo con Teheran, che non solo rimuova le dure sanzioni economiche, ma che favorisca anche il pieno reinserimento internazionale di quel Paese, è percepito come una follia dai monarchi arabi del Golfo. E non serve che Obama si affanni a spiegare come questo accordo elimini la possibilità di una proliferazione nucleare militare iraniana. Per essi – in particolare i sauditi – l’Iran è una sorta di "male assoluto": non è eliminabile (purtroppo), ma va in ogni modo confinato e isolato. O nel caso combattuto, attaccando i suoi alleati regionali (il regime di Assad a Damasco o le milizie Houthi nello Yemen) e diffidando di chi gli si è avvicinato geopoliticamente (il governo di Baghdad dominato dagli arabo-sciiti iracheni). Da questo punto di vista, hanno un idem sentire con il primo ministro israeliano Netanyahu, un altro alleato strategico di Washington con cui i rapporti sono tesi.Tuttavia, questa profonda divaricazione politica non si esaurisce al solo Iran, ma si riverbera all’intera politica di sicurezza mediorientale. La decisione saudita di contrastare gli sciiti Houthi nello Yemen con una campagna di bombardamenti rischia di favorire principalmente al-Qaeda, ben radicata in quel Paese e primo avversario degli Houthi. Allo stesso modo, in Siria e Iraq l’affermazione dello Stato islamico del califfo al-Baghdadi – ossia la minaccia principale che oggi ha l’Occidente – è stata indubbiamente favorita dal flusso di soldi e appoggi politici che i sauditi e gli altri emiri del Golfo hanno riversato sulle formazioni salafite e salafite-jihadiste. Pochi giorni fa, Marco Benedettelli su questo giornale ha evidenziato i legami finanziari perversi fra jihadismo bosniaco e soldi arabi. Né è un mistero che Jabhat al-Nusra, il principale gruppo di "franchising" qaedista in Siria, continui a essere sostenuta dagli emiri e dai turchi per combattere il regime di Damasco. Anche in questo caso, piena sintonia con Israele, la cui forza aerea è addirittura accusata dagli sciiti di offrire copertura militare ai qaedisti."L’alleato del mio alleato è mio alleato". Era lo schema base della guerra fredda. Oggi, in Medio Oriente, siamo all’assurdo: gli alleati dell’Occidente sono alleati con i nostri peggiori nemici. O forse non proprio alleati, ma decisamente simpatizzanti. Un controsenso strategico e un puzzle geopolitico irrisolvibile. Inutile da parte di Obama, indebolito dall’ostilità del Congresso e dalle manovre per le prossime elezioni presidenziali, cercare allora di rassicurare i propri alleati regionali con la logica e le buone argomentazioni. Raggiungere un accordo sul nucleare con l’Iran è un risultato storico e un successo diplomatico eccezionale non dovrebbe essere neppure dibattuto, tanto appare evidente. Ma non sembra così per coloro che, come i sauditi, rifiutano di accettarne la presenza regionale o coloro che, come Netanyahu, hanno costruito il proprio consenso politico speculando populisticamente sulle paure israeliane. Paradossalmente, essi fanno un regalo clamoroso agli ultraconservatori e ai pasdaran iraniani, i quali sperano nel fallimento del negoziato, così da mantenere le loro mani strette al collo della società del proprio Paese (moderata e filo-occidentale) e ben salde nelle tasche della propria economia.